Perché
mai un uomo dovrebbe consacrare ingegno e perizia al servizio di una
macchina, una macchina di morte?
L’ufficiale
protagonista di “Nella colonia penale” non ce lo spiega. Il
dispositivo è perfetto, a parte un sordo
cigolio, realizza
giustizia e regala certezza, o per
lo meno così lui crede, innamorato del giocattolo ereditato dal suo
comandante. Si preoccupa che tutto sia perfettamente oleato, che non
ci siano intoppi, che scorra liscio, che la rappresentazione abbia
luogo. Ne parla con entusiasmo, come fosse una meravigliosa opera
d’arte, un capolavoro di bellezza.
Al
di là delle metafore che hanno intravisto gli esegeti kafkiani, la
storia, quella vera, ci racconta di altri mille architetti, mille
montatori di ingranaggi mortiferi. Nessuno di loro saprebbe
risponderci veramente, al di là di una logica ma irreale
retorica sulla giustizia.
La
nostra è perciò una domanda destinata a non ricevere risposta, anche se ci volgiamo al passato, alla ricerca
dell’esempio primigenio.
Prendiamo
Procuste-Damaste, ad esempio, il “tenditore-costrittore”. Il
fabbro infernale che
sbarrava la via per Atene ai viandanti, che li riduceva
a misura di un letto, sempre troppo lungo o troppo corto,
con l’amputazione delle estremità dei
più alti, o la trazione delle membra dei più bassi. Nessuna
fonte ci spiega il motivo
del perché lo facesse.
Sappiamo
solo che ciascuno di questi artisti crudeli, sarti esperti e
ricamatori di carni umane, finì
vittima della propria macchina
ingegnosa. Arriva sempre, prima o poi,
un Teseo liberatore.