Trasformazione
grottescamente mistica è quella che riduce un condannato alla
scrittura della sua pena, altrimenti sconosciuta e solo così
rivelata, nella sua stessa carne in Nella colonia penale del
1914:
Come
tutti noi si coglieva l’espressione della trasfigurazione in quel
volto martoriato, e come si protendevano le nostre guance nel
riverbero di quella giustizia finalmente raggiunta e già quasi
svanita! Che tempi, camerata!
Posto
che sia vera (chi racconta è un ufficiale nostalgico dell’atroce
pratica), di tutte le metamorfosi kafkiane, questa è la sola
perfetta. Gregor Samsa resta infatti quasi del tutto un commesso
viaggiatore anche se in una forma alla quale si adegua forse come ogni
uomo a una malattia; la scimmia dell’Accademia racconta la sua
vocazione umana come l’unico scampo a un destino ancora più gramo,
non essendo più possibile la “libertà”. Almeno per un attimo
estatico, invece, il condannato della Colonia Penale, coincide con la
stessa sentenza che lo condanna, in un indicibile momento di
chiarezza.
La
trasformazione del corpo umano in scrittura è l’aleph a cui smesso
Kafka sente di essere chiamato. L’annullamento mistico nella
scrittura come la massima felicità concessa a uno scrittore: questa
sensazione Kafka la provò la notte in cui scrisse La condanna:
“Sforzo spaventevole e gioia di veder svolgersi davanti a me la
narrazione e di procedere navigando in un mare. Più volte portai
questa notte il mio peso sulle spalle. Tutto si può osare, per tutti,
per le più lontane trovate è pronto un gran fuoco in cui muoiono e
risorgono” (Diari, 23 settembre 1912).
Lo
scrittore che più di ogni altro riuscì in questo era per lui
Flaubert, ideale letterario e umano, monaco inflessibile d’una
scrittura definitiva. Flaubert è per Kafka la prova sufficiente che o
si scrive o ci si sposa.
Anche
nella lettura ad alta voce Kafka cercava lo stesso annullante
compimento: “desidero di accostarmi alle belle opere che leggo
talmente da fondermi con esse…” (Diari, 4 gennaio 1912).
Certamente
così agì su di lui, qualche anno dopo, Amleto:
“Max,
ho visto una rappresentazione dell’Amleto o, meglio, ho
ascoltato Bassermann. Per interi quarti d’ora avevo, ti giuro, il
viso di un altro uomo, ogni tanto dovevo distogliere gli occhi dalla
scena e guardare un palco vuoto per riprendermi” (cartolina a M.
Brod, 9 dicembre 1910).