Dal
5 al 18 ottobre 1914 chiese un permesso all’Istituto di
Assicurazioni. Cominciava a scrivere dopo cena e restava al tavolino
fino alla cinque o alle sette e mezza della mattina, quando le prime
luci e i primi rumori venivano a visitarlo, e abbandonava i fogli dove
aveva steso un capitolo del Processo
o Nella
colonia penale o il penultimo e
l’ultimo capitolo del Disperso,
che Max Brod intitolò Il
teatro naturale di Oklahoma.
Vorremmo
conoscere tutto – colori del cielo, nubi lievi o temporalesche,
posizione del tavolo, qualità della carta, mobili della stanza,
numero di passanti notturni, - su quei quattordici densissimi giorni
nei quali Kafka scrisse tre opere così profondamente diverse tra
loro.
Oggi
quasi tutti gli studiosi ritengono
che Il disperso si dovesse concludere
come Il processo e
Nella colonia penale, con
una condanna. A me non sembra possibile. Credo che in quei quattordici
giorni, dividendosi e lacerandosi in sé stesso, procedendo
grandiosamente nel regno della possibilità, trasformandosi in un
vortice di antitesi, Kafka abbia tenuto aperte davanti a sé stesso
due opposte ipotesi teologiche e narrative.
Da
un lato, nella fine del Disperso,
il mondo divino come grazia,
benvenuto, accettazione, rifiuto della Legge scritta: dall’altra,
nel Processo e Nella colonia penale,
il mondo divino come Legge del padre, scrittura e condanna. Nessun
grande artista è mai tessuto di una sola stoffa; e nessuno fu più
abitato da Kafka dal tragico gioco di tentare contemporaneamente tutte
le ipotesi estreme, tutte le contraddizioni polari dell’universo.