Erich Maria
Remarque (1898-1970) era un uomo bello,
caramelloso e
fragile (di
“stupefacente
vulnerabilità” scrive Maria Riva,
la figlia di Marlene). Con Niente di nuovo sul
fronte occidentale (1929) subì un successo che
Manganelli non avrebbe esitato a
definire catastrofico: tradotto in tutte le lingue, si vide seppellito
come un Paperone nel suo deposito
dai soldi dei diritti d’autore che gli arrivavano da ogni angolo della
terra incessantemente: era infatti il libro più venduto al mondo
dopo la Bibbia!…
Ricchissimo e per di più fascinoso,
amico del jet-set e dunque di attrici meravigliose, come
scrittore non concluse più molto per molti anni: da ciò nevrosi per
un’identità professionale incerta. Tanto più che il suo modello era
Thomas Mann.
*°*
L’amore con
Marlene ne segna la vita come uno spartiacque, e infatti
l’altro suo romanzo di abnorme successo internazionale è quello
rimuginato e scritto tra il 1938 e
il 1945,
Arco di Trionfo, dove i due peritosi amanti sono
proiezioni evidenti di Remarque e di Marlene.
Bisogna riconoscersi sempre schiavi
felici del meraviglioso Heisenberg, quando si parla di libri:
quindi - oggi e qui, domani chissà - Arco
di Trionfo suona un libro kitsch fino all’estremo, il
prodotto levigatissimo (sette anni per scriverlo!) di una Liala
hemingwaiana.
Al centro
Ravic, un medico che vive clandestino a Parigi in un
albergo di infimo ordine, che sembra tanto il
Bogart di Casablanca:
essendo un romantico ferito spande cinismo da ogni respiro, fumatore
perenne, antinazista scappato in Francia, non beve acqua ma Calvados,
e salva chiunque anche a costo della prigione. Con le donne ha
relazioni spicce e marlowiane, il che dovrebbe essere segno di un
grado estremo di pudore, se non fosse che questo dottore dal cupo
disincanto – un esistenzialista (La
Nausea è del 1938)
- non lo è al punto da risparmiarsi fiumi di sentenze, aforismi e
glosse acidule al male di esistere. Questo parlare sentenziando, per
apoftegmi in apparenza lasciati cadere sulla pagina come cicche sul
marciapiede, naturalmente si vorrebbe duro e scabro: come per lampi di
virilità definitiva
al cospetto del destino baro e di
uomini sempre e comunque lupi gli uni degli altri.
E invece non finiscono mai:
“siamo come scintille in un vento ignoto”;
“Tutti gli equivoci nascono dal voler capire”; “Ci si può fare anche
illudere dalla realtà. Ed è un sogno ancor più pericoloso”; “Il
miglior carattere lo hanno i cinici, il più insopportabile gli
idealisti.” “Chi spiega difende”; “Nessuna spiegazione. Le spiegazioni
sono banali. E, nel campo del sentimento, spiegazioni non ce ne sono”;
“Come insegnano cinquemila anni di biologia, l’amore rende acuta la
vista della donna e confusa quella dell’uomo”, eccetera…
Già dopo qualche capitolo potrebbero
risuonare smarronanti come i proverbi implacabili di
padron Toni nel micidiale
Malavoglia, e invece si va
avanti per 500 pagine: ce n’è da riempire bigliettini per cariole di
baci perugina, di quelli per innamorati depressi che amano
l’amaro compiacimento di sé.
A parte tanta gnomica ossessione,
siamo comunque in quel tipo di sintassi lì, nel trionfo
dell’impressionismo da paratassi, per catene di frasi nominali: come
telegrammi lunghissimi di frasi brevissime: “Girò la doccia. L’acqua
fredda si rovesciò sulla sua pelle. Respirò profondamente e si
asciugò. Conforto delle piccole cose. Acqua, respiro, pioggia di sera.
Anche questo lo sa appena chi è solo. Gratitudine della pelle.”
Eccetera…
E poi, come nei romanzi di
Dumas, che infatti si faceva
pagare a riga con sconcerto del papà che invece sapeva quanto è duro
il soldo guadagnato da vero lavoro, dialoghi più sottili della
Pioggia nel pineto:
“Paura?”
Accennò di sì.
“Di me?”
“No”.
“Di fuori?”
“Sì”.
Ravic chiuse la finestra.
“Grazie”, disse lei.
*°*
Ottimo per il cinema, che come si sa
s’impossessò presto del libro (Arco di
Trionfo, 1948,
regia di L. Milestone), Ravic è
però catastrofico quando pensa:
“Noi non moriamo” sussurrò nelle braccia di Ravic.
“No. Noi no. Solo il tempo, questo dannato tempo. Esso muore di
continuo: noi viviamo, continuiamo a vivere. Quando ti svegli è
primavera e quando ti addormenti è autunno, e mille volte
nell’intervallo è inverno ed estate, e, se ci amiamo, siamo eterni e
indistruttibili come il battito del cuore, e la pioggia, e il vento.
Mia amata, noi vinciamo nei giorni e perdiamo negli anni; ma che
importa?”
E qui non siamo che a un terzo del
romanzone. Eppure, lei non lo ucciderà.
Quanto alla
Dietrich, che nel romanzo è
Joan Madou, è descritta per esempio così: “Una bellezza
eccitante e perduta con sopracciglia alte e un volto il cui segreto la
sua esplicitezza. Un volto che non celava nulla e proprio per questo
nulla rivelava. Non prometteva niente e con ciò stesso tutto.”
Ha ovviamente l’anima misteriosa che
ci aspettiamo: è
laconica, egoista, poligama, bugiarda, e certo affascinante, anche se
non come una Grazia del Botticelli ma come una Circe catastrofica. E
Remarque alla fine la fa morire, uccisa dal suo ultimo amante che, a
differenza di lui così buono e riflessivo, è ovviamente stupidotto e
pasticcione con le pistole, molto ricco e dello stesso fatuo mondo di
lei, che è quello dei cantanti e degli attori.
Come diceva Dante? “Così nel mio
parlar voglio esser aspro / com’è negli atti…”