“Mi chiesero di salire sul piano, di
arrotolarmi una calza sino alla caviglia e di cantare un’aria che
avrei dovuto avere con me. Ma io non ne avevo portare. Dato che
comunque non avrei ottenuto la parte, a che mi sarebbe servito
l’ingombro di una canzone? Perché allora ero venuta? La risposta era
semplice: perché me l’avevano chiesto.
Von
Sternberg si
mostrò paziente: - Dal momento che non si è portata una canzone, canti
quello che vuole, - disse.
- A me piacciono le canzoni
americane, - risposi imbarazzata.
- E allora canti una canzone
americana.
Un po’ sollevata, cominciai a
spiegare al pianista qual era la canzone che volevo cantare.
Naturalmente non la conosceva.
Von Sternberg in un tono che non
ammetteva repliche: - E’ proprio la scena che volevo. E’ perfetta. La
girerò subito. Rifaccia esattamente quello che ha fatto adesso col
pianista: gli spieghi cosa deve suonare e gli canti la sua canzone.
Con mio grande rammarico, non ho
proprio mai visto questo provino.
Nelle settimane successive, non
sentii più parlare del progetto. Ma non me ne preoccupavo. Mia figlia
stava facendo i suoi primi passi, mio marito era finalmente tornato da
uno dei suoi viaggi. A casa andava tutto per il meglio.
Qualche tempo dopo, suonò il
telefono. Era von Sternberg. Voleva parlare con mio marito. La
telefonata fu l’inizio di un’amicizia che si spense solo con la morte
del cineasta. Mio marito ascoltò attentamente il suo interlocutore.
Intendeva difendere gli interessi di sua moglie ed era deciso a
discutere riga per riga tutte le clausole del contratto che l’UFA
mi avrebbe proposto. Ma dopo sforzi incessanti ottenne soltanto un
forfait di cinquemila dollari. Una cifra che non ha bisogno di
commenti. Emil Jannings ne prese
invece duecentomila. Ma Jannings era un divo affermato: io, invece,
una sconosciuta. Sconosciuta e inesperta. Insomma, niente da stare
allegri.”
(M. DIETRICH,
Marlene D)