“In letteratura non voleva lasciare
la presa: aveva più conoscenze, in questo campo, di qualunque altra
attrice. I fantasmi di Erich-Maria Remarque
e di Hemingway non le
lasciavano tregua: finiva col confessarsi vinta, ma non senza
soprassalti disperati. Ll’aiutai a dimenticare
Françoise Sagan, a rispettare
Gottfried Benn e a leggere, per frammenti, Günther Grass.
Non riuscii a parlarle in termini convincenti di
Tennessee Williams o di
Saint-John Perse. Contemporanea dell’espressionismo, aveva
aderito troppo presto ai valori cartesiani. Niente nel suo essere
accettava il mistero, l’ambiguità, il malinteso. Quando le parlavo
della magia della sua recitazione o della sua bellezza, non
rispondeva: riconosceva il proprio potere ma non prese mai in
considerazione la sua vera essenza. Si analizzava almeno? Non potevo
certo forzarla a definire ciò che in lei resta indefinibile. Evitava
gli argomenti scabrosi e le allusioni erotiche. In occasione di un
compleanno, le scrissi che lei era “la nobiltà del desiderio”. Mi
rispose al telefono: “Avrebbe dovuto dirmi questo al tempo di
Erich-Maria Remarque: o le avrebbe rotto la faccia, o sareste
diventati intimi amici”.
(A.
Bosquet, Marlene Dietrich. Un amore per telefono, il poligrafo
1992)