"Il Compagno segreto" - Lunario letterario. Numero 11 settembre 2005
Marlene Dietrich: parole per la Musa |
5. Bugie bianche
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“Non si mente mai abbastanza al cinema, salvo forse nelle commedie” (E. Rohmer)
“Perché sciupare una serata così con dei nomi?” (Marlene Dietrich in Angelo)
Angelo (E. Lubitsch, 1937) comincia con una bugia: Lady Maria Barker si annoia nella sua reggia di bambola, a Londra; così vola a Parigi, dove in albergo si registra come Signora Brown: lo stesso cognome da cameriera che Lubitsch darà a Jennifer Jones nello stupendo Tra le tue braccia (1946) una delle più belle commedie del mondo. Lady Barker è volata a Parigi per tornare (per la prima volta, da quando si è sposata cinque anni prima) nella casa di una presunta granduchessa russa che, altra bugia, tiene aperto un salotto che in realtà è una casa di appuntamenti. Lady Barker, dunque, non è semplicemente una Lady, e di quel suo passato complesso scopriremo presto che il marito - per quali catene di bugie? - non ha mai immaginato nulla. - Nella stessa casa arriva un uomo desideroso di compagnia femminile, Anthony Halton (Melvin Douglas), appena truffato da un tassista menzognero, che ha finto di non conoscere l’inglese per non rendergli il resto della grossa banconota ricevuta per la corsa. Melvin Douglas e Marlene si incontrano. Lei accetterà di passare una notte con lui solo a patto che mai si dica nulla di chi loro siano in realtà, e di quali siano i loro nomi. Non dire libera lei dalla schiavitù di mentire. Lui, meno sottile, prova a insistere per sapere ciò che non servirebbe ad alcun bene. Ma Lady Barker per il suo amante occasionale sarà solo Angelo. Come in Senza domani di Denon, o in Baci Rubati di Truffaut, la donna si dà in cambio dell’abolizione d qualunque minaccia al suo già adeguato futuro. Ma in questo caso, come per il tragico Marlon Brando di Ultimo tango a Parigi, il gioco settecentesco non tiene perché quell’unica notte risveglia un demone più grande, che non può non dire, per tutt’e due, Ancora! °*° Così si mente per amare, per guadagnare denaro, per darsi agio: alla fine del film, forse anche per credere di nuovo a se stessi, e a quella parte acquisita di sé che chiamiamo matrimonio. - Messaggio implicito: come se, se non si mentisse, non potesse succedere nulla di arioso, come se il futuro fosse sempre la bugia del passato. Tutto questo in un film che non ostenta niente, dove Lubitsch non tradisce neppure per un secondo “la raffinatezza (per fortuna opaca) del suo cinema” (E. GHEZZI, Ritocchi di Lubitsch, postfazione a L’ultimo tocco di Lubitsch).
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