“Quando do il mio amore
e ricevo solo odio,
è come se mia madre mi
schiaffeggiasse.
Non lo tollero, lei
capisce?”
(M. Dietrich, in Paura in
palcoscenico)
Paura in
palcoscenico (Stage fright)
è del 1949.
La Dietrich
fa la parte di una diva del music-hall di Londra: cinica, vanesia,
imperturbabile, forse furbissima mandante. Per gran parte del film, per un
flashback scandalosamente ingannevole (e di cui molto si parlò) può
essere addirittura creduta l’assassina del marito: lì appare, concitata e
confessa, alla porta di casa dell’amante, con una grande macchia di sangue
che si spalanca dall’inguine in giù sul meraviglioso vestito bianco
plissettato.
Sembra una variazione in giallo di
Eva contro Eva, capolavoro di
Mankiewicz, che la
Fox stava già girando e che uscì
l’anno seguente: anche qui c’è un’aspirante attrice, studentessa della
Royal Academy Dramatics Arts (Jeane Wyman)
che si fa assumere come cameriera da una diva, interpretando “nella
vita la sua prima parte, per condurre un’inchiesta poliziesca…”
(F. Truffaut – A. Hitchcock, Il cinema secondo
Hitchcock).
La Wyman, innamorata e credulona, è
convinta infatti che la Dietrich abbia ucciso il marito e che occorra
giusto trovare qualche prova che la incastri. Più attraverso il non detto
degli sguardi, nei disagi e nelle incertezze dei gesti la Wyman confessa
una manchevolissima invidia nei confronti della Dietrich.
Il movente profondo dell’accanimento
della ragazza verso la meravigliosa signora che la degna di pochi sguardi
e una mancia, sarà quello? – Hitchcock nell’intervista a Truffaut
aggiunge gossips sulla ferita quando racconta:
“Ho avuto molte difficoltà con Jane. Nel
suo travestimento come cameriera era necessario che imbruttisse,
perché dopo tutto, copiava la cameriera poco affascinante che
sostituiva. Ogni volta che andava ai rushes [le riprese
giornaliere] si paragonava a Marlene Dietrich e si metteva a piangere.
Non poteva rassegnarsi a diventare un personaggio e la Dietrich era
veramente bella.”
(F. Truffaut – A. Hitchcock, Ib.)
Sempre nell’intervista a Truffaut,
Hitchcock parla male del film, e Truffaut concorda (“non mi sembra che
aggiunga nulla alla sua gloria; è veramente un piccolo film poliziesco
inglese nella tradizione di Agata Christie…”). – E invece per mille cose è
una chicca: Truffaut preferisce le prime bobine, Hitchcock la festa
all’aperto a metà –dove può riprendere pioggia e ombrelli
meravigliosamente. Ma anche la fine, tutta girata in teatro, con giochi di
luce molto sternberghiani sui volti e gli occhi dei protagonisti sono
ammirevolissimi.
E’ a questo punto che
MD ha la sua scena: ha appena saputo
che un suo dialogo molto compromettente è stato registrato dalla polizia.
È sola con un poliziotto (B. Berkeley)
che deve sorvegliarla.
Marlene: - Sicché
avete sentito tutto.
Poliziotto: - Sì.
Marlene: - Ed
è tutto registrato…
Poliziotto: - …e
trascritto in stenografia.
Marlene: - Ma che
bravi… Si mette male per me, vero? Sono quella che voi chiamate
un’indiziata, suppongo. (Prende dlla borsa una sigaretta. Il poliziotto
gliel’accende) Grazie. Non è una cosa da niente…. Lei come si chiama?
Poliziotto: -
Mellish.
Marlene: - Le
piacciono i cani, Mellish?
Poliziotto: - Sì,
moltissimo.
Marlene: - Ma non
tutti, credo. Se un cane non ti ama, tu non lo ami. Non è così?
Poliziotto: - Penso
di sì.
Marlene: - Io
ne avevo uno. Mi odiava. Alla fine l’ho dovuto fare uccidere. Quando do il
mio amore e ricevo solo odio, è come se mia madre mi schiaffeggiasse. Non
lo tollero, lei capisce?
Poliziotto: - A
volte anche gli uomini si comportano così.
Marlene:
- (Sul suo solo primissimo piano, il primo
del film, poco prima di quelli dell’assassino e della sua ultima possibile
vittima) Sì. E il loro odio è anche più forte.
La
sceneggiatura è di Whitfield Cook e Alma
Reville: da un romanzo di Selwyn Jepson.