“Non verserò
lacrime su di lui.”
(M. DIETRICH,
Marlene D.)
Nel
mezzo d’una notte ventosa, a una rassegna cinevideo di Trieste,
Enrico Ghezzi
raccontò anche di
Fritz Lang:
di quando gli confidò di quanto vagheggiasse, fino alla struggenza, il
controllo totale del set: “avessi potuto, avrei scelto anche il partner
con cui la Diva avrebbe fatto l'amore la notte prima di un ciack...
anche quello cambia la luce...”.
La
storiella è coerente con l'icastica
Dietrich
che del mitico demiurgo di
Metropolis
e di
M,
disse secca: “E' un tiranno” – e non un nazista solo perché ebreo.
“Fritz Lang ci imponeva ogni passo,
ogni respiro, tutto quanto con un sadismo che sarebbe piaciuto a
Hitler, se Lang, ebreo tedesco, non
fosse sfuggito al nazismo per riparare in America. Si comportava da
tiranno. Non avrebbe esitato – e potemmo constatarlo – a scavalcare un
cadavere”; “L’avrei strangolato volentieri; i suoi ordini non avevano né
capo né coda”; “Fritz Lang ci imponeva ogni passo, ogni respiro, tutto
quanto con un sadismo che sarebbe piaciuto a Hitler, se Lang, ebreo
tedesco, non fosse sfuggito al nazismo per riparare in America. Si
comportava da tiranno sconclusionato . Non avrebbe esitato – e potemmo
constatarlo – a scavalcare un cadavere”
(M. DIETRICH, Marlene D.).
In Rancho
Notorius (1952) si vede il miglior film a colori di
Marlene, anche se lei pensò sempre di aver lavorato per “un’opera assai
mediocre” (ib.). - A parte le
patologie registiche di Lang (“i suoi ordini non avevano né capo né
coda”), Marlene ne faceva un fatto di stile: preferiva al technicolor da
fumetto di questo B-movie feroce, il calcolatissimo - e costoso - ton
sur ton del kolossal Il giardino di
Allah (R. Boleslawsky,1936), premiato a suo tempo con
l’Oscar per la migliore fotografia, con attori in sahariana che si
muovevano tra dune di sabbia fatta portare a camionate in un set
gigantesco
dal leggendario
David O. Selznick (per scoprire poi che la sabbia era
grigia… e che per questo tutti gli esterni del film dovevano essere
girati ancora una volta...).
Nel
film di Lang, la Dietrich fa l’ape regina di un rancho che è il bignami
del west mitico. Ci sono cow-boys fuorilegge, il poker, i cavalli da
domare; vi si covano vendette, si ascolta la donna cantare, si preparano
rapine.
Marlene pare non più che obbediente al film: ma è bello vederla passare,
nel niente d’uno stacco di montaggio, da jeans del tutto maschili
(niente a che fare con quelli fasciantissimi della
Monroe
nella
Magnifica
preda)
a fantastici abiti da
Via col
vento
- e questo senza dubbio solo per amor proprio: ché i vaccari che la
circondano e le fanno da corte pare non si cambino neppure il fazzoletto
al collo per settimane.
°*°
Per
chi conosce il cinema di Lang (M
e
Furia
su tutti),
Rancho Notorius
racconta ancora una volta l’eccesso della vendetta dell’uomo che
per trasformarsi in giustiziere decade a criminale: restando tra
tedeschi, è sempre la storia del
Michael
Koholaas (1810)
di
von Kleist:
per noi italiani da liceo, un Renzo Tramaglino che, invece di affidarsi
mitemente a un frate, risponde al male subito secondo il principio
dell’occhio per occhio.
Un
po’ come sarà nei western all'italiana, non ci sono i paesaggi clamorosi
di
John Ford
o di
Anthony Mann,
che tanto bene sarebbero venuti su una pellicola da 75 mm. (formato
wide che proprio Lang liquidò con qualcosa come: è buono per
riprendere un cadavere in una bara…), ma un luogo chiuso e tragico, che
i critici amano confrontare con la casa da gioco di un’altra ape regina
mitica -
Joan Crawford
- del ben più fiammeggiante
Johnny Guitar
di
N. Ray, (1954).