Andare incontro alla vita come alla
morte, alla vittoria come alla sconfitta, con lo stesso sorriso
interiore. - In Disonorata (X-27,
1931) c’è una morte che sembra un suicidio dolce: Marlene
si lascia fucilare per aver salvato l’uomo del colpo di fulmine, che
secondo lo scacchiere,
sempre così provvisorio, della storia è una spia della parte nemica.
L'habitus morale in tutti i
sette è film sempre appena
suggerito nei fatti da questo sorriso leonardesco: niente di
più di questo quando è sola, nel deserto dell’incomprensione,
con la morte nel cuore, nell’abbandono dell’uomo che non capisce; con
un’arte
suprema del silenzio, perché le parole – le vere puttane
(Auden) – non possono cambiare
alcunché dell’essenziale, che è sempre superficiale e laconico (pensa,
se vuoi un blasone colto, all’Hoffmansthal
della Lettera di Lord Chandos,
al Wittgenstein del
Tractatus…).
Nella sventura, la frivolezza, la
sua ironia, è l’unica maschera concessa. Guarda, in
Shangai express (1932),
la differenza tra l’ex-amante, che rimpiange serioso gli anni sprecati
nella lontananza, e il destino di lei che per questo si è perduta,
e Marlene che dice: “Soltanto una cosa non rifarei: non mi taglierei i
capelli” - che le stanno benissimo.
La sventura è la
scelta di Marlene madre in Venere bionda,
per cercare di non farsi strappare il suo bambino da un padre
tenacemente ottuso e rancoroso.