“...mi permetteva d'intravedere le cupe chimere che abitavano il
suo spirito, delle quali ero ormai parte integrante.”
(M. DIETRICH, Marlene D)
“Il fatto è
che nei suoi film Sternberg ricerca febbrilmente se stesso, si cerca
e si offre attraverso le preziose stesure, il fascino delle trovate.
Per semplificare, chiameremo l’insieme di oggetti disseminati dal
circolo narcisistico sternberghiano col loro nome più noto: Marlene
Dietrich. Identificarsi con Marlene voleva dire rendere un’immagine
del mondo, raccolto nel paesaggio della figura e soprattutto del
volto dell’attrice (…) come mondo risolto nell’occhio dell’artista
che lo guarda. Che, cioè, si guarda allo specchio e dona agli altri
il riflesso di guardarsi.”
(…)
“Ci si identifica amando: e
Sternberg ‘è sforzato di considerare naturale l’amare Marlene,
nell’ordine delle cose che mediano il rapporto con la propria
persona. Di certo a Marlene non è venuto naturale. Non si può
pretendere che l’acqua si innamori di Narciso. Sternberg lo
pretendeva…”
(…)
Tendersi una morbida trappola e catturarsi magari in un primo piano
di Marlene: il fine di Sternberg. Ma la trappola a se stesso gli
sfuggiva come un risvolto, il retro della vita. “Per incarnare la
mia eroina avevo un modello in testa, e rifiutavo un’attrice dopo
l’altra, per la sola ragione che nessuna corrispondeva all’immagine
che mi perseguitava”. Il modello che aveva in testa era un disegno
di donna del pittore Felicien Rops,
che il regista aveva sempre in mente.”
(…)
”Ma creare un’immagine era allo stesso tempo distruggerla per
mostrare il movimento puro della creazione, il gesto del creatore.
Sternberg stesso assicura “che il fatto di trasformare degli essere
umani in immagini fotografiche non è un atto d’amore”. Egli, del
resto, nega la qualifica di artista all’attore
cinematografico e gli attribuisce, con demiurgica prepotenza, quella
di “nient’altro che uno dei materiali complessi del lavoro di
regista”…”
(M. DE BENEDICTIS, Il
cinema americano, Newton Compton,2005)