“Mes
vers ont le sens qu’on leur prête”
(P.
Valéry)
Eccola,
la frase dello scandalo!
Vorrà
mica dire - come pensa il Gadamer di
Verità e metodo - che
leggere La Jeune Parque potrà
essere un’esperienza dada, una più o meno delirante deriva di senso
à la Derrida (ecc.)?
Prendiamo
parole sue: in questa “epoca del mondo” in cui comandano la
“fretta” e la facile isteria della “sorpresa”, in questa “era
del provvisorio” segnata da un’evidente “rinuncia alla durata” (Varietà), la poesia costringe infatti a lentezze e a pazienze verso le
quali si è persa ogni buona confidenza. Le fatiche necessarie per
‘diventare’ lettore di versi stridono ormai con una generale pretesa
di fruizioni solo ‘facili’, immediate non più che vagamente olistiche...
figlio di questa bambagia senza lotta, chi legge arriva del tutto
disarmato al cospetto dell’arduo castello poetico: sarà costretto di
fatto “inavvertitamente, a imparare di nuovo a leggere” quando si
trova di fronte a un testo che, proprio perché poetico, “deve
conservare se stesso” (Scritti sull’Arte), opponendosi “alla
risoluzione istantanea del discorso in idee” che è propria della
comunicazione linguistica consueta, ed esigendo invece
“un’applicazione intellettuale spesso intensissima e una ripresa
sorvegliata del testo: esigenza pericolosa e quasi sempre mortale” (Varietà), cioè infinita.
Chi
legge avrà il suo da fare per “conferire... ‘un senso non
indegno’ di quella forma mirabile e della fatica che figure verbali
così preziose erano sicuramente costate” (Varietà). Nella discrezione
della litote, Valéry segna un limite micidiale, al di sotto del quale
il testo non viene neppure sfiorato dalla lettura.
Vincolati
al sentimento dato dall’incontro con una “forma mirabile”, il
conferimento del senso si mostra allora come un’operazione tra le più
ardue ed estreme, portata com’è “inevitabilmente ad associare il
diletto poetico alle operazioni deduttive della mente e alle sue facoltà
combinatorie” (Varietà).
In
questo percorso, morti e feriti restano sulla strada sempre in salita
dell’interpretazione goduriosa, vittime predestinate della difesa che
il testo - diamante altero - oppone ad ogni volontà di comprensione
troppo ingenua, troppo poco capace di allarme, incanto e inquietudine.
La
lettura - l’interpretazione - parla
insomma molto più del lettore che del testo stesso. Il Leopardi del
Parini lo scrisse mirabilmente. - “Sintesi di difficoltà e di
grazia” (Varietà), il testo è una Gioconda : una bellezza muta e
intangibile che nulla dice alla solitudine questionante del lettore.
Si
può da questo arrivare a capovolgere il celebre giudizio platonico
(Fedro) sull’idiozia autistica della scrittura: la scrittura è
superiore al dialogo vivo proprio perché ha trovato nella sua forma il
modo perfetto per non più replicare all’interprete, il quale gli
lancerà sempre domande incompiute, in un tentativo di senso sempre
precario, azzardato, ‘personale’...
La
poesia porta tra gli uomini la differenza: “riguardo all’essenza
della Poesia, ritengo che sia, a seconda degli individui, di valore
nullo o di importanza infinita: cosa che la assimila a Dio” (La caccia
magica); proprio per questo non può né deve contemplare la casualità
dei suoi interpreti, così come in Leopardi la Natura è tale proprio
perché non ha repliche per il
querulo Islandese, e la Luna splende sorda alle povere domande del
povero pastore.