Un platonico perfino più
drastico di Platone pare Valéry quando scrive che i nomi
delle “cose mentali” “sono impossibili” (Quaderni,
I). - Ora, che la poesia sia un’avventura mentale non
riguarda una scuola tra le infinite possibili, ma la sua
essenza.
Si impara a scrivere scrivendo versi, e a leggere leggendoli: come nelle
seconde nascite dei mistici, accedendo al poetico finalmente ci si
risveglia, e si comincia a capire qualcosa di serio. Chiaro che,
per questo lettore obbligato a iniziarsi come un Parsifal, l’azzeramento del linguaggio irriti e sgomenti: “quando si annulla il linguaggio, si è spaventati,
umiliati, giacché si annulla anche il «riconoscere» (...) e non
resta altro se non ciò che non somiglia a niente, l'informe” (Quaderni,
vol. II).
Solo dopo questo “da capo”, qualcosa comincia davvero: “grazie alle parole sussurrate e udite interiormente,
esploro il mio pensiero, i miei possedimenti, il mio possibile - mi
percorro parola per parola; e senza di esse niente sarebbe nitido
interiormente” (Quaderni,
vol. II).