Il
non saper finire ti rende così grande
(Goethe)
Allez!
Tout fuit! Ma présence est poureuse,
Le
sainte impatience meurt aussi
(P.
Valéry, Le
cimetière
marine)
Come
superare l’onta di nascere
caotici, imprecisi e sempliciotti, tal quali, insomma, a tutti gli
altri? Tutta una vita sarà sufficiente per distinguersi e così trovarsi?
- E basterà il romanzo di uno junghiano processo di individualizzazione,
o addirittura la consolazioncella romantica che ogni vita è pur sempre
e comunque unica e vera, o si cercherà, alla prova dei fatti, il
segno tangibile - qualcosa che resta nel mondo, evidente e staccato da
noi! - della nostra possibile differenza?
“Nei
regni della creazione, che sono altresì i
regni dell’orgoglio, la necessità di distinguersi è inseparabile
dall'esistenza medesima” (Varietà):
lì “la
vittima del male di non essere unico, si consuma a inventare ciò che lo
separa dagli altri” (Ib.).
- Diventare “un
insulare dell’isola IO”, “asserragliarsi...
in un’indefinibile isola interiore”, è il dono in realtà demoniaco
di “una
qualche virtù segreta”: forza del resto ritrovabile “in
ogni persona profonda” (Ib.).
Se
questa è la strada, l’uomo
che scrive per diventare se stesso - e cioè unico, e cioè solo -
scrive nel deserto, seminando messaggi giusto per quelli come lui: “per
gli uomini che sono soli e che hanno la forza di sentirsi soli” (Quaderni,
vol. I): vale a dire il contrario di quelli che “scrivono
e parlano senza tremare” (Monsieur Teste).
Altro
che opere e capolavori, bibliografie e destini artistici compiuti:
qui è in gioco l’io che crea se stesso, che è il Dio
di se stesso! - “Non
posso riconoscermi in una figura finita. E l’io sfugge
continuamente dalla mia persona che tuttavia disegna o incide
sfuggendola” (Quaderni, vol. I).
I graffi e le incisioni - le parole - rimaste sulla carta stanno
all'io come le tracce di un sismografo alla deriva dei continenti:
appena prove di quanto “quel
che scriviamo differisce da noi stessi e come quello che non scriviamo
sia più importante” (Quaderni, vol. II).
Valéry
in qualunque fare vede sempre appena un passo - forse del resto
fatto a vuoto! - del proprio farsi: qualcosa che verrà
fermato solo dalla morte. Solo lì il groviglio pulsante dell’io
si riduce a quanto nell’esistere
è stato solo fatto: come Socrate
- sarà un sollievo? - diremo “io
nacqui parecchi e son morto uno” (Eupalino).
- Fino a quel punto però, l’opera, nel processo di autocreazione dell’autore
al cospetto di se stesso, sarà sempre qualcosa di instabile: come la Gioconda
per Leonardo,
sarà “il
frammento di una sostanza mobile e vivente che è forse suscettibile di
sviluppo e coltura” (La caccia magica).
E’
il labirinto, che conobbe Degas,
dell'infinito “sudare
jucunde” (Quaderni, vol. I):
l'autore reincontra sempre la sua opera, e ciò che sembrava fatto,
“alla
fine di un certo tempo, si mostra ancora capace di suscitare il
possibile - di irritare il desiderio...” (Quaderni,
vol. I).
Valéry
- amleticità operosa - è l’autore
di superbie necessarie. Senza posa, senza fine: vi sono solo mezzi, mai “un
fine in assoluto” (Quaderni,
vol. II). Sono proprio i mezzi che fanno nobile il fine, mai il
contrario.
Ma
in arte è vera solo l’affermazione di cui
è vero anche il contrario (Oscar Wilde),
e infatti - a mischiare appena un po’ i
testi - qui si arriva al punto dello spartito che prevede un Da capo e
una biforcazione: perché, proprio nel libro prescelto per questo
numero, si legge che, liberata la mente da “percezioni senza futuro”,
“bisogna avere una testa ben fatta per sfruttare le cose felici,
dominare le trovate, e finire” (Degas
Danza Disegno).