"Il Compagno segreto" - Lunario letterario. Numero 10 maggio 2005
Degas Danza Disegno di Paul Valéry |
8. Retro-guardie
Ovvero: Contro la Facilità in Arte
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“in realtà la grande arte è sempre il prodotto di una straordinaria abilità tecnica. E bisogna saper leggere questa abilità tecnica nei suoi minimi dettagli.” (Federico Zeri, Dietro l'immagine)
Come un filo di trama intrecciato a tutto il testo, a volte in superficie altre sotteso, c’è in Degas Danza Disegno una critica senza appello alle ormai costosissime Avanguardie– tabù tutt’ora vivo! Valéry vede, non solo nella pittura ma in tutte le arti, dalla rivoluzione romantica in poi uno slittamento crescente e inesorabile verso la Facilità, la quale sta all’arte come sapienza formale e cura dell’espressione esatta la sua nemica mortale.
Dappertutto, infatti, ha prevalso l’abbandono delle discipline lente, degli apprendistati complessi e il progressivo affermarsi dell’arte come espressione sentimentale, e dunque diretta, naïf, fauve, contenta di improvvisi e impressioni, di lampi d’inconscio scarsamente trasfigurati, o di tranches de vie che potrebbero essere descritte in una pagina come in mille… Arti, dunque, tutte sempre più desolantemente impressioniste.
E’ un processo lungo, nella sostanza del tutto coerente con il trionfo di una società borghese, urbanizzata, industriale, rapida dunque ed economicamente ossessionata. E la pittura è un caso che vale un emblema. Intanto i soggetti, che sono sempre più cose accessibili alla vita e all’occhio facile dei più: “Se due prugne s’un piatto valgono una Deposizione della Croce…”, allora “il risultato prevale sul problema” , e salta una gerarchia che comunque riconosceva i diversi gradi di difficoltà! - Così una minima, e mirabile, natura morta di Chadin vincerà sempre più sul complicatissimo rompicapo compositivo del Ratto delle Sabine di Poussin.
Quando nell’arte si nega il virtuosismo come criterio d’eccellenza, solo allora nasce la critica, la quale – intellettualistica e concettosa - proporrà gerarchie in ogni caso più arbitrarie di quelle che riconoscono l’abilità formale. - Prevarrà infatti sempre più il riconoscimento nell’opera di un’operazione concettuale rispetto alla quale la padronanza tecnica non è che veicolo.
Come si vede, parliamo di nature morte, ma siamo già appena a un passo dal tutt’ora scandaloso Duchamps del ready-made.
Dove Valéry prende una strada tutta sua, solitaria e allo stato dei fatti perdente, è nel rifiutare il fatto che l’aspetto intellettuale dell’arte possa essere altro dalla padronanza di labirinti formali sempre più ardui e sottili. – L’impressionismo più propriamente detto, quindi non Manet e Degas, ma i profeti della pittura rapida, delle impressioni di sole guazzate su una tela senza disegno (Monet, Renoir, ecc.) fu quindi “una diminuzione singolarmente accentuata nella parte intellettuale dell’arte” (Ib). Valéry, allora, implacabile:
Degas invece, “impressionista” per comodità di vulgata, non era un pittore en plain air, né annacquava le figure fino a sconfinarle in macchie emancipate da ogni disegno. Era un artista aristocratico, cultore del disegno, fiero del suo apprendistato con Ingres, dei lunghi studi sui capolavori degli Italiani… Conosceva il valore di una tradizione che “non esiste che per essere inconscia, e che non sopporta d’essere interrotta…” (Ib.).
P.S.: Però, una contraddizione è sospettabile quando scrive di Pascal che “non sapeva guardare”, che vuol dire “dimenticare i nomi delle cose che si vedono” (la notazione è identica in un saggio di Varietà). – Perché, se guardare puramente è dimenticare che le prugne sono “prugne” e le deposizioni “deposizioni”, se tutta la pittura è dunque astratta, perché mai dipingere prugne sarà sempre meno che panneggiare deposizioni? |
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