“L’opera
di Mallarmé era per noi il fiore di tutto ciò che di
prezioso stava morendo. In essa respiravano l’essenza delle
più alte bellezze della poesia francese, meditate,
concentrate e composte in quei testi brevi e intensi. Vi si
mescolava, venuto dalle regioni di Amleto o dal più lontano
nell’Ovest, un soffio d’ombra.”
(P.
Valéry, Mallarmé e io)
“Mi
rammento dei primi contatti che ebbi con la sua opera. Per quale
ragione, a differenza di tanti altri, non fui respinto
dall’oscura bizzarria che essa rivelava di primo acchito. Fui
dapprima colpito dal fatto che la mia memoria – da sempre
naturalmente e ostinatamente ribelle all’acquisizione dei testi
di cui avrei voluto rifornirla – ricordasse senza il minimo
sforzo, e quasi a prima lettura, quei suoi versi che sarebbero
dovuti riuscire ingrati per la loro difficoltà bizzarramente
costruita. Ma, essendomi io stesso cimentato nella poesia, la mia
attenzione si era da subito soffermata sui caratteri formali che
le appartenevano. Ritmo(i), timbro(i), sintassi mi apparivano
fattori essenziali ai quali il poeta non doveva mai sembrare poco
attento e dai quali, a rischio della propria inesistenza poetica,
ogni elemento di un’opera doveva trarre il suo precipuo valore.
Ciò significa che avevo già rifiutato più d’un poeta di
prim’ordine per la sua negligenza e ingenuità espressiva. I
versi di Mallarmé, che li capissi o no, soddisfacevano appieno il
mio rigoroso bisogno di consistenza poetica. D’altronde, in
materia d’arte, apprezzo realmente solo ciò che mi dà la
sensazione della perfezione, e ammetto solo ciò che mi dispera”
(P. Valéry, Mallarmé e io).
“Avevo
l’impressione che qui il pensiero, invece di stimolare la
propria impressione e di trovare una forma più o meno felicemente
determinata da questo bisogno pressante, fosse come esplorato
nelle possibilità formali. Questa era una novità assoluta” (Ib).
“L’efficacia
degli «incanti» non risiedeva nel significato di cui i vocaboli
erano depositari, quanto invece nelle sonorità e nella singolarità
della forma. Anzi, l’oscurità era quasi una loro
proprietà essenziale.
Ciò che viene cantato o articolato nei momenti più
solenni o più critici della vita; ciò che risuona nelle
liturgie; ciò che mormora o geme negli estremi della passione; ciò
che calma un bimbo o un malato; ciò che attesta della verità in
un giuramento, sono sempre parole che non si possono né risolvere
in idee chiare, e nemmeno separare – senza renderle assurde o
vane – da un determinato tono e da un determinato modo. In tutti
questi casi, l’accento e l’andamento della voce hanno
il sopravvento su ciò che questa suscita d’intelligibile; più
che alla mente, si rivolgono alla vita. Voglio dire che quelle
parole, più che stimolarci a comprendere, ci impongono di divenire”
(P. Valéry, Varietà).