“…io
ho lavorato molto per persuadermi che il pubblico non esiste...”
(G.
GOULD,
No,
non sono un eccentrico)
Molto vicino alle idee che si leggono
in questo numero, è l’estetica musicale del grande Glenn
Gould, di cui il c.s.,
qualche tempo fa, un po’
si occupò.
Più di qualunque altra cosa, Gould
amava suonare la mente; e i suoni che pensava non erano
neppure necessariamente di pianoforte: a volte di clavicordo altre
di liuto, o di violoncello o di organo: spesso erano poi suoni
puri, senza corpi
precisi, suoni – come per l’ultimo Bach
- perfino indifferenti a
quel che avrebbe potuto diventare il loro corpo futuro. – Molto
più che negli strumenti, la musica si coverebbe in quei giochi
tra suoni da Iperuranio, suoni platonici, suoni che potrebbero
restare a intrigarsi e districarsi sulla carta del pentagramma o
nel libro della memoria, e che ci
perderebbero ad essere incarnati in qualunque
suono di questo come di ogni altro mondo.
La musica era un pensiero che nel pianoforte trovava appena un
transito tra i possibili: era un'idea pura che s'incarnava sì nel
suono ma solo per tendere di nuovo all'incorporeità: questa volta
di chi ascolta. – Perfino questo, del resto, potrebbe non essere
necessario, perché, a rigore, riguarderebbe solo chi non ha
abbastanza virtù e conoscenza da apprezzare la musica senza
bisogno delle corporee mediazioni di un interprete-medium. - Un
mondo perfetto sarebbe stato per Gould
pieno di musica e vuoto di strumenti: pieno di musiche puramente
mentali, trasmesse per telepatia, direttamente lette nei
pentagrammi dell'intelletto. L'uomo musicale perfetto, come Beethoven, forse allora
è sordo, disincarnato da qualunque entropia del suono concreto.
Quel fortunao non suona ma compone; non ascolta ma ricrea dentro
di sé...
Gould
suonava sì e no un paio di volte al mese, a volte perfino meno:
era proprio il fatto di essere immerso permanente nella dimensione
mentale della musica che rendeva così casto il rapporto
con lo strumento: troppa dimestichezza col pianoforte avrebbe
disturbato, e persino deluso, quei suoi ghiribizzi dilettevoli e
infiniti.
Tecniche di ascesi e tecniche di
piacere, come si sa, facilmente coincidono. L’ipercerebralismo
di Gould ricorda molto il
libertino: e quell’accorgimento – lo leggiamo in de
Sade? - grazie al quale, per un massimo piacere
sessuale, un gaudente coltivato starà due o tre settimane senza
toccar femmina, concedendosi giusto vaghi accenni di polluzione,
ma solo perché così la fantasia si rinfranchi ancora, e
dunque senza mai abbandonarsi del tutto: servirà infallibilmente
per arrivare all’incontro galante pieno non solo di desideri
particolarmente intensi, ma, soprattutto, di idee.
Posto che dietro tutto ciò vi fosse una
qualche strambezza, il punto è che Gould
seppe fare di quella nevrosi un’arma. – Sviluppò talmente la
sua foresta di musica mentale, che poteva in un momento qualunque
sventagliare varianti su varianti per l’esecuzione dello stesso
pezzo. La sua maschera, intanto, poteva essere sorridente e sicura,
come d’un killer dagli umori sardonici, come mistica,
abbandonandosi in deliqui di paradisi che, attraverso il suono,
rendeva almeno un po’ più accessibili agli avulsi.
Demonismo delle varianti: anche un
attore come Charles Laughton
(“il più grande che abbia mai incontrato”, diceva sempre Billy
Wilder) si presentava sul set con 20-30 modi diversi di
recitare la scena prevista quel giorno, sciorinando talmente tanta
intelligenza e gusto che per il regista ogni scelta sarebbe stata
un delitto.
Né più né meno di Valéry,
proprio per questo Gould fu
accusato di essere un pianista nichilista (A.
Brendel, Il velo dell'ordine). Quando invece era
un interprete che suonava solo nel momento in cui la musica era
stata nel suo pensiero letteralmente ricomposta (celebre il
caso dell’op. 110 di Beethoven).
Era solo a quel punto,
che arrivava allo strumento: tutto è già accaduto
nell’invisibile e quella che resta sarà, appunto, un’esecuzione:
tci sarà da essere spietati.