“...l'infinito
tu puoi
respingere...”
(P.
VALÉRY, Disegno
d'un serpente)
“Il
lavoro infinito” in cui può sprofondare l'Autore sarà allo
stesso tempo “una
sorta di etica della forma” e un “morbo”, la prova di “un
gusto perverso per la ripresa indefinita”, che si compiace di
mantenere le opere al loro “stadio reversibile” (Quaderni,
vol. II).
- “Agli
occhi di questi appassionati d’inquietudine
e di perfezione, un’opera non è mai compiuta, - parola che
per loro non ha alcun senso, - ma abbandonata”
(Ib.).
Detta
così, l’arte
non sarà mai un’economia ma una religone dagli evidenti caratteri d’una
mistica da stilita: “o voi mistici! - e anch’io
a modo mio, che strano lavoro abbiamo imtrapreso! Fare e non fare, -
non voler fissare un’opera materialmente circoscritta - ome fanno
gli altri, cos che noi giudichiamo illusoria, ma infrangere senza posa
la nostra definitezza, e sempre, ulteriormente, al lavoro, voi per
Dio, e io per me stesso e per niente” (Quaderni,
vol. I).
Come
la preghiera,
la scrittura è un’attesa, non un vero scrivere, ma “un prepararsi a scrivere in
qualche impossibile giorno” (Ib.),
senza neppure che la preparazione all’opera
possa diventare - come per esempio in Proust
- opera a sua volta: qui solo si persevera, per “una storia senza fine, un
dramma senza catastrofe, ultimo atto”... qualcosa che potrà essere
“o indefinitamente protratto o interrotto a caso” (Quaderni,
vol. II).