Le circostanze dell’epoca strappano all’individuo ogni possibilità di tenersi libero a nuotare sotto quella che Milan Kundera ha chiamato la «schiuma sporca della politica». Raccontare anche solo alcuni frammenti della storia corale dell’emigrazione dei cineasti ebrei in America obbliga a una visione dell’insieme che per noi italiani sarà facile chiamare “manzoniana”: cercando, per quanto faticosamente, di mostrare proprio l’intreccio inestricabile tra i destini individuali e la storia senza volto - e senza alcuna provvidenzialità - che travolse e distrusse, tra il 1933 e il 1945, la vita di milioni di uomini. La storia del cinema da sola è quindi troppo poco, e occorre rinunciare alla “consolazione dello specialismo” se si vuol mantenere lo sguardo il più possibile fedele alla realtà così come si spalanca all’interrogazione: labirintica, frammentata per i resti che dal passato ci tornano come da un naufragio, resti che pur reclamano un racconto in cui la sorte sempre palpitante di ogni individuo concede un minimo del suo fiato, altrimenti sigillato come in un’ampolla: e lo studioso naviga sul passato come se questi non fosse che un oceano di lampade di Aladino. Se è troppo scomodare I promessi sposi, quanto ci serve lo dice proprio Rick nel climax melodrammatico di Casablanca: «…it doesn't take much to see that the problems of three little people don't amount to a hill of beans in this crazy world» («…non ci vuole molto a capire che i problemi di tre piccole persone non fanno neppure una collina di fagioli in questo pazzo mondo»). Proprio l’inscindibilità tra quel po’ di “fagioli” di cui stiamo tentando di raccontare la storia, e il “pazzo mondo” in cui si ritrovarono gettati, è il cuore di questa ricerca.
(da: Francesco Carbone, Da Hitler a Casablanca (via Hollywood). Cineasti ebrei in fuga dal nazismo, Edizioni EUT, Trieste 2011)