La recitazione muta di Bogart abbiamo imparato a riconoscerla nel corso del film. È quello stesso minimo assenso a decidere quali avventori possano essere ammessi alla sala da gioco del caffè: qualcuno bussa, il cameriere si volta verso Rick che gioca da solo a scacchi (un’idea sua, aggiunta a una sceneggiatura in cui misero mano un po’ tutti), e lui con un cenno concede o nega il permesso di entrare. Questa economia di gesti è possibile perché il Café Américain è un piccolo caso di quel governo perfetto, e cioè invisibile, che leggiamo nel Tao: « La Via è costantemente inattiva / eppure non c’è niente che non si faccia» (Tao Te Ching). Rick c’è e non c’è; nel suo bar ogni decisione essenziale è presa da lui; allo stesso tempo il croupier (Marcel Dalio), il capocameriere Carl (S. Z. Szakall) o il barista Sascha (Leonid Kinskey) non hanno bisogno di chiedere nulla a Rick per sapere cosa fare, se non in situazioni eccezionali. In queste Rick interviene in modo spiccio, inappellabile, per poi appartarsi di nuovo. Quando aiuta la giovane coppia a cui mancano i soldi per acquistare i visti, basta una sua occhiata al croupier per fargli capire come debba far girare la roulette. Poi liquida la giovane moglie che commossa lo ringrazia con un laconico «He’s just a lucky guy».
(da: Francesco Carbone,Da Hitler a Casablanca (via Hollywood). Cineasti ebrei in fuga dal nazismo, Edizioni EUT, Trieste 2011)