Proprio perché i milioni di vittime della Shoa non erano affatto una massa indifferenziata e senza nome se non per i carnefici, sarebbe un servizio reso postumo ai carnefici considerarli solo come numeri nella cupa contabilità dell’«Olocausto» (sul termine cfr. GIORGIO AGAMBEN, Homo sacer). Ridare a ogni vittima la sua storia, e così restituirla a quella libertà morale che il nazismo aveva loro rapito, significa restituirli a quel fascio vitale di incertezze e di errori, tra vigliaccherie, esitazioni ed eroismi, che ogni uomo ha come possibilità sua propria. Le accuse che subì Hannah Arendt (vedi HANNAH ARENDT, Le polemiche sul caso Eichmann in La banalità del male) per non aver fatto di“tutta l’erba un fascio”, e aver avuto il coraggio di distinguere i vari comportamenti che le vittime ebbero di fronte al pericolo mortale che le sovrastava, paradossalmente obbedivano alla stessa logica dei carnefici: ridurre la foresta intricata di storie e di relazioni umane e sociali degli uomini che sottostarono al breve e terribile dominio del Reich all’opposizione netta di due blocchi, da dividere con un solo colpo della spada della Giustizia: «quasi non ci fosse una differenza tra aiutare gli ebrei a emigrare e aiutare i nazisti a deportarli» (Ibid.).
(da: Francesco Carbone, I vecchi maestri, introduzione a Da Hitler a Casablanca (via Hollywood). Cineasti ebrei in fuga dal nazismo, Edizioni EUT, Trieste 2011)