Entra Amleto
leggendo un libro
(Indicazione
per la scena 2 dell’Atto II)
«un letamaio di
libri»
(Jules Laforgue,
Amleto, ovvero Le conseguenze della pietà filiale)
“…la mia libreria
era un ducato abbastanza vasto.”
(La tempesta,
Atto I, sc. 2)
Battute tra le più famose: «Polonio
- Che cosa leggete, mio signore? / Amleto - Parole, parole, parole»
(Atto II, sc. 2). Il fatto che siano parole di un libro che parla
senza rispetto della vecchiaia ha certo un senso in un dramma in cui i
giovani pagano per tutti; ma qui non ci interessa l’argomento, ci
interessa il fatto del passeggiare leggendo un libro.
L’atteggiamento verrà imposto a Ofelia (Polonio: «per dar colore alla
vostra solitudine») quando farà da trappola affinché, inducendo Amleto
a confidarsi, Polonio e Claudio «legittime spie» (Atto III, sc. 1)
possano evincere un adeguato giudizio sulla sua indecifrabile pazzia.
Non funzionerà, ma non perché Amleto non sia bibliofilo abbastanza.
Scaltro e furibondo, quando la incontra – a differenza di come avesse
fatto Polonio con lui – non le usa neppure la cortesia di chiederle
cosa stia leggendo, e, benché all’inizio gentile, presto passa agli
improperi.
Essendo libresco davvero, e quindi troppo intellettualmente raffinato
perché un grezzo fantasma gli basti per capire quale sia la verità,
il giovane Amleto non trova niente di meglio che provare a fregare lo
zio (la
trappola per topi)
con un colpo di scrittura capace – a sentir lui – di tradire la
fisiognomica del troppo sereno Claudio. Così propone agli attori di
aggiungere al dramma L’assassinio di Gonzago «un
discorso d’un dodici o sedici versi, ch’io metterei giù e inserirei in
esso» (Atto II, sc. 2).
Ma pare sia più facile leggere un libro che indovinare cosa esprima un
volto (vedi per esempio quello che tra gli esperti di cinema è noto
come effetto Kuleshov).
Pare dunque che con libri e
scritture nella vita si continui ad andare pur sempre a casaccio. Il
più celebre dei colleghi di Wittenberg, il Dottor Faustus
di Marlowe, penserà bene di bruciarli tutti
(Atto V, sc. 2).
Nella commedia di Shakespeare più squisitamente libresca, dei
libri si sa parlare malissimo perché è certo stupido fare i ciceroni
del nulla cercando
«conferme misere dai libri d’altra gente» (Pene d’amor perdute
I, 1); «Tutti i godimenti sono vani, e vano tra tutti quello che,
procurato con dolore, ha in retaggio il dolore, come lo stillarsi il
cervello su un libro cercando la luce della verità, mentre la verità
proditoriamente acceca la luce dello sguardo. La luce che cerca la
luce priva la luce di luce.» (Pene d’amor perdute, I, 1);
«La scienza non è che un’aggiunta a noi stessi» (Pene d’amor perdute,
IV, 3). Solo un giovane animato da una potente vocazione al potere
– meglio comandare che…? – potrebbe dire con fede una frase così:
«Sono ancora troppo giovane, e più mi si addicono lo studio e i libri
che lo spassarmi con un’amante.» (Enrico VI parte I, atto V, 1):
poi si invecchia, e il libro fa da specchio al disastro: «Sono uno
scritto scribacchiato con qualche tratto di penna / su di una
pergamena, e in presenza di questo fuoco / mi accartoccio su me
stesso» (Re Giovanni, V, sc. 7).
E se davvero tutto è scritto, e se
dunque tutto è libro come credono i cabalisti e Mallarmé,
è stupefacentemente leopardiano questo pensiero, tanto più se viene
dalla mente d’un re: «O Dio, se uno potesse leggere un libro del
destino e vedere le rivoluzioni del tempo spianare le montagne e il
continente, stanco della sua solida consistenza, sciogliersi nel mare;
e vedere talvolta la cintura di sabbia dell’oceano troppo ampia per i
fianchi di Nettuno, o come le circostanze si ridon di noi e i
mutamenti riempiono di liquori diversi la coppa delle vicissitudini!
Oh, se si potesse vedere tutto questo il più felice dei giovani
scorgendo l’intero suo viaggio e i pericoli passati e gli ostacoli
ancor da venire chiuderebbe il libro e si lascerebbe cascar le braccia
in attesa della morte» (Enrico IV parte II, Atto III, sc. 1).