"Il Compagno segreto" - Lunario letterario. Numero 12, settembre 2007

 


 

n. 12 °*° W. Shakespeare : Fantasmi di Amleto  °*° n. 12

 

 

 

9. Libri

 

 

 


 

Entra Amleto leggendo un libro

(Indicazione per la scena 2 dell’Atto II)

 

«un letamaio di libri»

(Jules Laforgue, Amleto, ovvero Le conseguenze della pietà filiale)

 

“…la mia libreria era un ducato abbastanza vasto.”

(La tempesta, Atto I, sc. 2)

 

 

Battute tra le più famose: «Polonio - Che cosa leggete, mio signore? / Amleto - Parole, parole, parole» (Atto II, sc. 2). Il fatto che siano parole di un libro che parla senza rispetto della vecchiaia ha certo un senso in un dramma in cui i giovani pagano per tutti; ma qui non ci interessa l’argomento, ci interessa il fatto del passeggiare leggendo un libro. L’atteggiamento verrà imposto a Ofelia (Polonio: «per dar colore alla vostra solitudine») quando farà da trappola affinché, inducendo Amleto a confidarsi, Polonio e Claudio «legittime spie» (Atto III, sc. 1) possano evincere un adeguato giudizio sulla sua indecifrabile pazzia. Non funzionerà, ma non perché Amleto non sia bibliofilo abbastanza. Scaltro e furibondo, quando la incontra – a differenza di come avesse fatto Polonio con lui – non le usa neppure la cortesia di chiederle cosa stia leggendo, e, benché all’inizio gentile, presto passa agli improperi.

 

Essendo libresco davvero, e quindi troppo intellettualmente raffinato perché un grezzo fantasma gli basti per capire quale sia la verità, il giovane Amleto non trova niente di meglio che provare a fregare lo zio (la trappola per topi) con un colpo di scrittura capace – a sentir lui – di tradire la fisiognomica del troppo sereno Claudio. Così propone agli attori di aggiungere al dramma L’assassinio di Gonzago «un discorso d’un dodici o sedici versi, ch’io metterei giù e inserirei in esso» (Atto II, sc. 2).

Ma pare sia più facile leggere un libro che indovinare cosa esprima un volto (vedi per esempio quello che tra gli esperti di cinema è noto come effetto Kuleshov).

 

Pare dunque che con libri e scritture nella vita si continui ad andare pur sempre a casaccio. Il più celebre dei colleghi di Wittenberg, il Dottor Faustus di Marlowe, penserà bene di bruciarli tutti (Atto V, sc. 2). Nella commedia di Shakespeare più squisitamente libresca, dei libri si sa parlare malissimo perché è certo stupido fare i ciceroni del nulla cercando  «conferme misere dai libri d’altra gente» (Pene d’amor perdute I, 1); «Tutti i godimenti sono vani, e vano tra tutti quello che, procurato con dolore, ha in retaggio il dolore, come lo stillarsi il cervello su un libro cercando la luce della verità, mentre la verità proditoriamente acceca la luce dello sguardo. La luce che cerca la luce priva la luce di luce.» (Pene d’amor perdute, I, 1); «La scienza non è che un’aggiunta a noi stessi» (Pene d’amor perdute, IV, 3). Solo un giovane animato da una potente vocazione al potere – meglio comandare che…? – potrebbe dire con fede una frase così: «Sono ancora troppo giovane, e più mi si addicono lo studio e i libri che lo spassarmi con un’amante.» (Enrico VI parte I, atto V, 1): poi si invecchia, e il libro fa da specchio al disastro: «Sono uno scritto scribacchiato con qualche tratto di penna / su di una pergamena, e in presenza di questo fuoco / mi accartoccio su me stesso» (Re Giovanni, V, sc. 7).

 

E se davvero tutto è scritto, e se dunque tutto è libro come credono i cabalisti e Mallarmé, è stupefacentemente leopardiano questo pensiero, tanto più se viene dalla mente d’un re: «O Dio, se uno potesse leggere un libro del destino e vedere le rivoluzioni del tempo spianare le montagne e il continente, stanco della sua solida consistenza, sciogliersi nel mare; e vedere talvolta la cintura di sabbia dell’oceano troppo ampia per i fianchi di Nettuno, o come le circostanze si ridon di noi e i mutamenti riempiono di liquori diversi la coppa delle vicissitudini! Oh, se si potesse vedere tutto questo il più felice dei giovani scorgendo l’intero suo viaggio e i pericoli passati e gli ostacoli ancor da venire chiuderebbe il libro e si lascerebbe cascar le braccia in attesa della morte» (Enrico IV parte II, Atto III, sc. 1).


  torna a 

 

        torna su