«La saggezza
del melanconico è figlia della profondità»
(M. Ficino,
De vita triplici)
«Melancholy is
the nurse of frenzy.»
(The Taming
of Shrew, Introduction, II)
Nel Discours de la
conservation de la vue (1597), l’illustrissimo dottor André
du Lauren, medico alla corte del re di Francia Enrico IV,
leggibile in inglese già dal 1599 e considerato allora una
delle summe del sapere umano sulla tabe malinconica, afferma che
quando la malinconia domina troppo e troppo a lungo la mente di un
uomo, questi accede a una sorta di estasi divina che lo spinge a
filosofare, divinare, scrivere versi: come si vede, un’espansione di
concetti presenti nel Fedro di Platone.
In attesa della celebre
Anatomy of Melancholy di Robert Burton (1621)
gli splenetici poteva delibarsi narcisisticamente anche del
Treatise ou Melancholia di Timothy Bright (1586),
che Dover Wilson (What Happens in Hamlet, Cambridge 1935)
cita come fonte proprio della folle melanconia di Amleto, e dell’Optick
Glass of Humours di Thomas Walkington (1607)
dove trovi antitesi irrisolvibili concettualmente non molto diverse da
quelle amletiche. Il melanconico è infatti un ciclotimico oziosamente
sbalzabile tra euforia e depressione, «sad of the wise to be aut
Deus aut Daemon, either angel of heaven or friend of hell» su e
giù lungo le montagne russe dell’umore tra «Elysium and Paradise» e un
«hellish purgatory by a cynicall meditation»…
Si è, dunque, sempre saputo che con
la malinconia abbiamo accesso a «l’altra faccia della verità che la
malinconia rivela, le tappe inconcluse del nostro eterno disordine in
quel gioco di maschere utili a nascondere quel senza-volto che
chiamiamo Io» (U. Galimberti, Parole Nomadi, Feltrinelli,
2006).