Nel «famigerato articolo di Greg» (H. Jenkins, curatore
dell’edizione Arden di Hamlet, Routledge 1982) si sostiene
addirittura che, quando il Re sospende la messinscena dell’Assassinio
di Gonzago non lo fa perché si riconosca colpevole, ma per
altri turbamenti. Del resto perché dovrebbe, nella rappresentazione
dell’omicidio di uno zio da parte del nipote, specchiarsi
nell’assassino?
«L’unica ipotesi plausibile per spiegare il comportamento del Re è
questa: egli nella pantomima non riesce a scorgere la rappresentazione
del proprio crimine (…). E’ questa la sola conclusione razionale:
Claudio non ha assassinato il fratello versandogli il veleno
nell’orecchio. In sede critica, non è possibile fare deduzioni che
abbino un maggior grado di certezza» (W. W. Greg, Hamlet’s
Hallucination, 1917).
Più che un critico pare l’avvocato di Claudio. Ma ha torto? – Ha
scritto più recentemente Cavell: «Mi colpisce comunque il fatto che
nessuno, per quanto ne so, abbia risposto a Greg in maniera
soddisfacente» (S. Cavell, Il ripudio del sapere. Lo scetticismo
nelle tragedie di Shakespeare, Torino 2004). Cavell entra
allora nel varco e insiste: «Ma perché bisogna a tutti i costi pensare
che lo Spettro abbia detto la verità? (Sottolineo che, sospettando
dello Spettro, né Greg né io vogliamo negare che Claudio abbia davvero
ucciso suo fratello Amleto, come poi confessa nella scena della
preghiera. Il punto è come ha ucciso. E questo il distinguo su cui si
baserà tutta la mia argomentazione)» (Ibid.).
Il
punto è come ha ucciso?... C’è del demente in Amletlandia, e
questo, si sa, dalle origini.
Intendiamo questa morbosa attenzione alla trama, che distingue
da sempre un po’ tutti – Hegel, Goethe, Eliot… -
davvero una legione di uomini geniali che credono però (come vorrebbe
Amleto?) alla superstizione dei fatti. Molti elementi invece
farebbero pensare che in Amleto già si covino le
ambiguità irrisolvibili di Rashomon (Kurosawa, 1950),
dove un fantasma – anche lì! – non solo non fa emergere la verità, ma
intorbida ancora di più le acque. Ora, che Amleto sia il
testo più a lungo coltivato di Shakespeare è per Auden la prova
d’una sua debolezza intrinseca e non emendabile… giusto il contrario
di quanto sostiene il, per il resto spesso noiosetto e sentenzioso,
H. Bloom (Shakespeare, Milano 2003). La trama si
sarebbe complicata perché l’autore avrebbe aggiunto disastri a
disastri nell’illusione che si sarebbero corretti a vicenda: da qui
una trama alla fine insostenibile ma anche misteriosamente perfetta:
come accadde al film Casablanca (il paragone di
Umberto Eco).
Potrebbe, sul problema della trama, aiutarci ancora il cinema
e pensare che Shakespeare in Amleto non è un scrittore
à la Hitchcock – mago di thrillers in cui
comunque tutto alla fine ‘torna’, ma alla Howard Hawks del
Grande sonno, capolavoro che il regista per primo diceva di
non saper raccontare: intrigo noir in cui il caos delle trame
non trova pace mai, e dove il ritmo e le atmosfere, le luci e gli
sguardi, i toni e i vestiti, i fumi di sigarette e i fasci di luce
delle auto nella brumosa città della notte, aprono a noi la più
perfetta finestra sperabile per accedere al mondo senza Dio di
Philip Marlowe.
Impossibile a questo punto non notare che sia Marlowe che
Amleto sono dei sarcastici parlatori, che amano il monologo e, nel
caso del cinema, la voce fuori campo.
(Il che sarebbe perfino un’idea per una regia: un Amleto in
cui i monologhi siano più o meno tutti di una voce off: intanto
l’azione va avanti, anche se magari per pantomime, come nell’Omicidio
di Gonzago che sta al centro del terzo fatidico atto).