«Essere o non…»
(Atto III, sc. 2)
«Non troverà mai, in un’enciclopedia, una voce per il verbo «essere».»
(R. CASATI A. C. VARZI, Semplicità insormontabili, Bari 2006)
«L’idea che gnomi e fate esistano può sembrare una stravaganza; ma
poiché non sappiamo cosa significhi ‘esistere’ preferirei tenermi
sulle generali.»
(G. Manganelli, UFO e altri oggetti non identificati, Roma
2003)
«ciò che non siamo…»
(E. Montale, Ossi di seppia, 1925)
ESSERE: E’ il primo verbo del
dramma: «Who’s there?» – Chi è là? (mentre l’ultimo è
«sparare»).
Attorno all’essere o non essere si
facevano vortici e girandole dai tempi biancazzurri di Parmenide,
dunque dall’inizio lontanissimo di ciò che supponiamo di essere, o
forse di non essere più, quando disquisiamo di cosa voglia dire essere
o non essere Occidente, o, addirittura, dell’essere o non essere
uomini.
Eppure essere è il concetto «più
oscuro di tutti» , leggi quasi subito in Essere e tempo
(Torino 1955), e Heidegger cita Pascal: che vede
contraddizione già nel tentativo di darne ragione: come spiegare,
infatti, cos’è l’essere, visto che è
impossibile farlo senza già usarlo per definirlo? Siamo subito finiti
in un circolo vizioso: la spiegazione usa la parola che andrebbe
definita!…
Shakespeare ha sempre giocato con
tutti i paradossi che l’(onto)logia e la grammatica permettono col
to be anche nell’uso apparentemente più distratto. Questo non è
che un breve campione scelto quasi a caso: «Hai dunque paura di
essere nell’azione e nel coraggio quello stesso che tu sei nel
desiderio?» (Macbeth, Atto I, sc. 7); quasi uguale una battuta
di York: «sii quello che speri di essere, o abbandona alla morte
quello che sei» (Enrico VI parte III, Atto III, sc. 1); nello
stesso dramma: «sono almeno un uomo, e meno di questo non posso
essere» (Enrico VI parte III, Atto III, sc. 1), che è giusto il
contrario di un altro colpo di lama di Macbeth: «Chi osa far di più non è un
uomo» (Atto I, sc. 7).
L’«io sono soltanto me stesso» (Riccardo
II, Atto V, sc. 6) ricorda al volo la tautologia divina
«Io sono quello che sono» (Esodo, 3, 14), ma con senso
chiaro di desolata povertà, mentre Jago quello stesso Dio lo capovolge
gelidamente per dir di sé «I am not what I am» (Otello, Atto
I, sc. 1 64). Jago è il virtuoso del gioco delle due carte di
essere e non essere: «se io fossi il Moro non vorrei esser Jago» (Otello,
Atto I, sc. 1); «E’ quello che è. Io non debbo mettermi a far
critiche su come si potrebbe essere a. Se non è quello che potrebbe
essere, volesse il cielo che lo fosse!» (Ib. Atto IV, sc. 1).
Torniamo a Riccardo II:
qui l’essere di un uomo pare dirsi solo come inganno d’un’anamorfosi:
«guardata quale è, non è altro che ombre / di ciò che non è» (Atto
II, sc. 2). – L’amore stesso ha esistenze appena aleatorie e
problematiche: «Era non è è…» (A piacer vostro, At. III, sc.
4), del resto «niente di quello che è, è» (La dodicesima
notte, At. IV, sc. 1). Perfino Falstaff cade nel tranello
dell’essere credendo che il nuovo re resti per lui il complice che
era: «Non mi rispondere con uno scherzo da scemo: non presumere che io
sia quello che ero…» (Enrico IV parte II, V, 5). Niente
è per sempre, niente del resto cambia abbastanza: «questa è la
Cressida di Diomede …questa è e non è Cressida» (Troilo e
Cressida, Atto. V, sc. 2), ecc. - Che però è il
contrario di quanto leggi nel Sonetto 59: «Se di nuovo non c’è
nulla, ma ciò che è /È
già stato prima, come
s’inganna la nostra mente, /che nel travaglio dell’invenzione
abortisce /il secondo fardello di un bambino già nato!» (vv. 1-4).
Tutte le rigorose psicologie hanno
testato che basta un po’ di sonno e la coscienza di essere si disfa,
angosciando però molto più un re shakespeariano che il piccolo Marcel
della Récherche: «Ah! Son desto? Non è vero! Chi è che
mi sa dire chi sono?» (Re Lear, Atto I, sc. 4).
Stupefacente il risveglio hitleriano
di Riccardo III dal suo incubo:
Ho paura? Di me? Non c’è nessuno.
Riccardo ama Riccardo: io sono
io..
C’è un assassino qui? No. Sì,
proprio io!
(Riccardo III, Atto V, sc. 3)
In originale, quell’«io» finale è
seguito dal famigerato verbo: »No. Yes, I am». Nonostante gli spettri
di Riccardo, va riconosciuto che di solito essere figli di puttana
tempera l’Ego: «Ed io sono io, comunque sia stato concepito» (Faulconbridge
il Bastardo in Re Giovanni, Atto II, sc. 1); «Ma
quello che tu sei lo sa Dio, lo sai tu e lo so io» (Mowbray a
Bolingbroke in Riccardo II, Atto I, sc. 2).
Perfino nei divertissements
come il miracoloso Sogno d’una notte di mezza estate,
Shakespeare con leggerezza lubitschiana insuffla metafisica
dappertutto: «Termini filosofici quali «essere» e «ontologico»
sembrano pomposi quando si tratta di adolescenti incostanti, e
tuttavia non se ne può fare a meno» (R. Girard, Shakespeare. Il
teatro dell’invidia, Milano 2002).