"Il Compagno segreto" - Lunario letterario. Numero 12, settembre 2007

 


 

n. 12 °*° W. Shakespeare : Fantasmi di Amleto  °*° n. 12

 

 

 

26. Diviso cinque

 

 

 

 


 

«Il principe Amleto ne ha tanto così che gli pesa sul cuore, molto di più che non entri in soli cinque atti.»

(Jules Laforgue, Amleto, ovvero Le conseguenze della pietà filiale)

 

 

«Hamlet è forse il dramma di Shakespeare che più ha sofferto per una corretta lettura del suo impianto strutturale, dell’imposizione, operata da Nicholas Rowe nel 1709, di una divisione forzata in atti e scene, in conformità di una malintesa normativa classicista. Si è arrivati al punto di far terminare il terzo atto e iniziare il quarto nel corso di una scena (quella nella stanza della regina Gertrude) che in effetti continua, tanto che la regina stessa non lascia il palcoscenico dopo l’uscita di Amleto con il cadavere di Polonio da lui ucciso, e infatti subito dopo Claudio la raggiunge nello stesso luogo, ed anche almeno le due brevi scene successive (ora IV ii e iii), che si svolgono senza soluzione di continuità, fanno chiaramente parte ancora del terzo atto. L’arbitraria divisione del Rowe è dovuta a una preoccupazione realistica: gli sembrava che fra l’uscita di Amleto e l’ingresso di Claudio dovessero trascorrere non pochi secondi ma un più lungo lasso di tempo. L’equivoco è dovuto all’incomprensione delle funzioni temporali nel teatro elisabettiano, ossia del costante processo di riduzione e compressione dei tempi ‘reali’ nella durata scenica, processo di cui Hamlet stesso dà ampia testimonianza fin dalla prima scena: ci viene annunciato che essa ha inizio a «mezzanotte appena suonata» (riga 7) e, sebbene l’azione non subisca alcuna interruzione, pochi minuti dopo Orazio avverte (righe 166-67) che «il mattino, nel suo manto rossiccio, sfiora la rugiada su quel monte ad oriente», ossia è già l’alba.»

(G. Melchiori, Shakespeare, Roma-Bari, 2005)

 

 

«Gli in-quarto presentano un testo continuo, l’infolio divide fino a II, ii, e la divisione tradizionale qui adottata è opera di normalizzazione neoclassica di Nicholas Rowe (1709). Sul testo stabilito da Jenkins vediamo che le sue 3835 righe sono state divise in blocchi per formare i cinque atti, rispettivamente 864, 721, 897, 651, 702, mentre il numero delle scene in ogni atto è rispettivamente 5, 2, 4, 7, 2. La cesura meno abile è quella tra III, iv e IV, i, che spezza in due una scena. Una scena di lunghezza abnorme (601 righe) è la II, ii, e avrebbe potuto essere divisa. In realtà. Come tutti i testi teatrali elisabettiani, l’Amleto è un continuum di episodi scanditi dalle indicazioni enter-exit, un’accumulazione non diversa per natura da quella più netta, architettonica, essenziale, scandita dai movimenti del coro, della tragedia greca. La strutturazione in “inizio, mezzo, fine” della Poetica è assai discutibile e astratta. Nell’Amleto uno schema aperto di episodi (mi sembrano inadeguati, finora, i tentativi di scansione semiotica) è organizzato dalla fabula, dallo stile, dalla visione.»

(N. D’Agostino, nota a W. Shakespeare, Amleto, Garzanti 2004)


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