AMLETO - Ma io 
          dentro ho qualcosa che non si può mostrare…
          
          
          (Atto I, sc. 2)
          
          
           
          
          
          AMLETO - Chi è 
          costui la cui pena
          
          
          Reca tale 
          enfasi, le cui espressioni di dolore
          
          
          Incantano i 
          pianeti vaganti e li fanno fermare
          
          
          Ad ascoltare 
          feriti dallo stupore? Eccomi, sono io,
          
          
          Amleto il 
          danese.
          
          
          (Atto Quinto, 
          sc. 1)
          
          
            
          
          
          «Ma io…»
          
          
          (Riccardo III, 
          Atto I, sc. 1, v. 14)
          
          
            
          
           
          
          «L’io 
          rappresentatore-creatore veduto nella sua saldezza, e nella fissità 
          centrica che è propria di quel cavicchio ch’egli è, circonfuso d’un 
          tempo stolido e inerte, a versar luce nella tenebra come riflettore 
          nelle paure della notte, è idolo tarmato, per me. Codesto bambolotto 
          della credulità tolemaica, in ogni modo non ha nulla di comune con la 
          sua identità di ferito, di smarrito, di povero, di «dissociato noètico». 
          D’intorno a me, d’intorno a noi, il mareggiare degli eventi mortiferi, 
          il dolore, il lento strazio degli anni. Il concetto di volere si 
          abolisce, nel lento impossibile. L’oceano della stupidità.
          
          Né raggiungerei, penso, alcuna 
          autenticità di scrittura, ove mi buttassi con artificio meditato, o 
          come un fannullone briaco sulla lampada, alla riva opposta, alla 
          opposta condizione: che è quella d’un io vagotonico, oppure 
          soccombente per partito preso cioè deliberata poetica a una storia 
          bugiarda. Rotonde speranze, temibili vociferazioni dei veggenti. Lo 
          scrittore si intona, si schiarisce l’ugola. Si tratta, bene spesso, di 
          vocalizzi d’apertura: certa bravura di laringe: emettendo certi suoni 
          molto attesi, te ne viene plauso e corona.»
          
           
          
          (C. E. Gadda, I viaggi la 
          morte)