"Il Compagno segreto" - Lunario letterario. Numero 12, settembre 2007

 


 

n. 12 °*° W. Shakespeare : Fantasmi di Amleto  °*° n. 12

 

 

 

16. Problemi di puzzle

 

 

 


 

RE : (a parte) Ah, com'è vero! Che sferzata queste parole per la mia coscienza. La faccia della puttana sotto i suoi impiastri rispetto ai colori che l'abbelliscono non è più orrida delle mie azioni rispetto alle mie parole false . Oh quanto mi pesa!

(Atto III; sc. 1)

 

«Non siamo realmente noi se non quando, mettendoci di fronte a noi stessi, non coincidiamo con niente, nemmeno con la nostra singolarità.»

(E. M. Cioran, La caduta nel tempo, Milano 1995)

 

 

«Guardare dentro se stessi in maniera sana, senza distruggersi; inoltrarsi nella profondità inesplorata senza costruzioni illusorie e fantasticherie, ma in atto di pura contemplazione è una dote rara. Goethe.» (F. Nietzsche, Frammenti postumi. Vol. III: Estate 1872 – Autunno 1873, Milano 2004). Chissà. Nel romanzo che mette al centro Amleto, Wilhelm Meister finirà col guardare alla sua passione per il franto figlio di Danimarca come a un peccato di gioventù, mentre il suo IO sarà sentito come sano e integro al di là addirittura del tempo: «il corpo si consumerà come un abito, ma io, l’io che ben conosco, io sono» (W. Goethe, Wilhelm Meister. Gli anni dell’apprendistato, Milano 2006). E anche nei momenti di massimo simpatetico invasamento per il principe, Wilhelm-Goethe aveva sempre creduto che anche Amleto avesse avuto un’anima: non la faticosa, rancorosa, “moderna”  diplomazia al vertice di un «pensare» che a sue spese impara a riconoscersi «soltanto» come discontinuo instabile « reciproco rapportarsi degli istinti» (F. Nietzsche, La genealogia della morale).

 

«L’“io” può essere concepito solo nel senso di un indicatore formale e neutro di qualcosa che, nella sua connessione d’essere fenomenica concreta, può rivelarsi come l’“opposto” di ciò che sembrava» (M. Heidegger, Essere e tempo, Torino 1955); più clinicamente: «l’Io è strutturato esattamente come un sintomo. Non è altro che un sintomo privilegiato all’interno del soggetto. E’ il sintomo umano per eccellenza, la malattia mentale dell’uomo» (J. Lacan, Il Seminario. L’Io nella teoria di Freud e nella tecnica della psicoanalisi, Torino 2006).

Quindi «l’”io” va odiato»  (B. Pascal, Pensieri): «Se portassi con me sempre il raschino, mi cancellerei tutto» (M. de Montaigne, Saggi, vol. I, Milano 1986).

  

 

«L’assioma teologico-politico di Gregorio di Nazianzo; “L’Uno è in guerra civile con se stesso” (to hen stasiatson pros heuton) definisce il canone dell’io letterario, ed è noto che la dommatica trinitaria non è che un’ardita speculazione sull’atto di parola: il parlante, il verbo, il soffio della voce.»

(G. AGAMBEN, Introduzione a G. Manganelli, Contributo critico allo studio delle dottrine politiche del ‘600 italiano, Macerata 1999)

 

 

Già qualcosa di tutto questo perfino nello Shakespeare più barbaro: «…ma so che tu sei devoto e hai in te una certa cosa che si chiama coscienza, con venti buffonerie papiste e cerimonie che ti ho veduto osservare zelante…» (Tito Andronico, Atto V, sc. 1); e uno dei due sicari che nel Riccardo III ha qualche scrupolo prima di uccidere Clarence («Alcuni rimasugli di coscienza / mi son rimasti dentro…» Riccardo III, Atto I, sc. 4).


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