AMLETO - forse
d’ora in poi crederò conveniente affettare un umore fantastico.
(Atto I, sc. 5)
Come tutte le storie, si potrebbe
anche raccontarla come una favola: c’era una volta nella lontana
Danimarca una corte, dove a un certo punto il giovane principe Amleto,
bellissimo e geniale e a cui tutti vaticinavano un futuro di gran re,
impazzì: una cosa, almeno in apparenza, accaduta tutta d’un botto.
Chiese la regina, mamma vedova del principe da poco risposata, al re,
e il re chiese al ministro: sarà perché gli è morto all’improvviso il
padre? o perché ci siamo or ora sposati? o perché è stato ferito il
suo amore per la giovane dama diletta? e, se no, per cos’altro mai? E
infine, per dirla proprio tutta: è pazzo per davvero o fa solo il
dispettoso? – Con tutto quello che c’è da fare in un regno, bisogna
essere spicci e sbrigativi: cosa fare, insomma, per saperlo e
rinsavirlo?
Ora, la cosa strana di questa corte
danese è che tutti ma proprio tutti – Re, Regina, ministri, confidenti
e fidanzata - danno per certo che il principe pazzo sappia come nessun
altro la ragione della sua pazzia, che proprio questo sia il suo
segreto! Ancora peggio: invece di chiamare un bravo dottore dei pazzi,
di quelli che sanno dire parole furbe e inapparenti e spiare i segni
dell’infinito inconsulto dell’uomo, la piccola corte della piccola
Danimarca crede anche che solo riuscendo a indurre il principe a
confessare per filo e per segno la sua follia sarà possibile guarirlo.
Detta così, sembra quasi la corte del dottor Freud, ma è tutto più
caotico e più buffo.
Fatto sta che il principe pazzo non
vuole confidare niente a nessuno. Anzi no, parla ogni tanto con un
amico, Orazio, che pare la sua ombra, il solito succube laconico con
cui si accompagnano questi adolescenti estrosi e narcisi:
probabilmente non deve apparire a nessuno neppure intelligente
abbastanza per sostenere una qualche conversazione, e infatti, mentre
tutti si affannano a inventare strane trappole per carpire al principe
il segreto della sua benedetta follia, nessuno al suo amico chiede mai
niente.
Ferocemente ritroso alla pubblica
autodiagnosi, Amleto ogni tanto pare addirittura che si diverta.
Sempre più scaltro ad evitare i trabocchetti che i vari frequentatori
della reggia gli tendono per indurlo a parlare su che tipo di pazzia
lo faccia esser pazzo, pare giochi a indovina merlo e a nascondino con
i suoi investigatori. Nessuno infatti cava il ragno dal buco, e fino
alla fine il principe pazzo resta l’ enigma eminente della Danimarca:
da farne un’attrazione, se fosse esistito a quel tempo il turismo.
Ma un pazzo che sapesse dire per
filo e per segno per cosa è pazzo, è poi pazzo davvero? Un pazzo
ritroso, un pazzo furbo, un pazzo dialettico, sofistico… un pazzo
psichiatra, come l’Hannibal del Silenzio degli Innocenti?
La breve corte di Danimarca pare non concepire pazzie diverse da
questa. E quindi, quando Amleto dice a Rosencrantz e Guildenstern che
ha perso tutta la sua allegria ma non sa il perché (Atto II,
sc. 2), mentirebbe sapendo di mentire, perché in Danimarca i pazzi
sono tali solo se sanno molto bene per cosa sono pazzi. Dunque Amleto
che dice perché non so non è pazzo. Mentre fuori della
Danimarca proprio quel perché non so potrebbe apparire molto
vicino a una sincera confessione di autentica pazzia.