POLONIO: Quanto al principe Amleto, di lui credi che è giovane, e gli
si dà più corda che non si possa a te…
(Atto I, sc. 3)
OFELIA: …e vedo quel giovane fiorente, senza pari, bruciato dalla
pazzia.
(Atto III; sc. 1)
RE: …quel giovane pazzo…
(Atto IV, sc. 1)
«…l’asprezza è appunto il sintomo di una sofferenza incompleta.»
(E. M. Cioran,
Quaderni. 1957-1972, Milano 2001)
Amleto, Ofelia, Laerte, Rosencrantz,
Guildenstern: a parte Orazio e Fortebraccio, muoion tutti i giovanotti
che fanno un salto in Danimarca! Il coro del politically correct
oserebbe gridare che fu strage d’innocenti? – Ora qui sosterremo che
la nostra distanza dal giovane Amleto sarà necessaria e
necessariamente ironica. Intanto: già la semplice ricorrenza dei
concetti e dei nomi legati all’ustionabile gioventù dice quanto si
tratti di un tema: se infatti Hamlet viene detto in
tutto il dramma 83 volte, young e youth ricorrono
assieme 31. A questi si aggiungano sinonimi, metafore, perifrasi, e
soprattutto – quasi all’inizio! - i due sermoncini di seguito
contro la giovinezza di Laerte e di Polonio, e, infine, di
quest’ultimo i ricordi di quando fu giovane lui, attore e innamorato
fino quasi alla follia (e dunque figurale specchio del principe
dissennato perfino nel suo hobby!).
Ma la giovinezza del protagonista
implicherà la giovinezza del suo testo?
Nessun testo muore giovane, dunque
nessuno lo è stato mai. Una parola stampata ustiona di nero la pagina
per volare all’istante oltre lo specchio del tempo (per questo
è stupida, ha scritto Platone).
Chissà; intanto è certo che la
giovinezza resta a deperirsi al di qua.
Resta al di qua a
passare («Look in thy glass and tell the face thou viewest»,
Sonetto n. 3). Si
strugge la giovinezza che nel testo si quintessenziò, e intanto il
testo non ne sa niente: l’«inchiostro nero» (Sonetto n. 65)
corre via da subito per una tangente opposta a quella della «troppo
solida carne» che si disferà lasciando odori ben più grevi che
«rugiada» (Amleto, Atto I, sc. 2; Atto V, sc. 1). –
Capita del resto che da giovani si scriva proprio per questo: per far
provvista di vita finché se n’ha, credendo che col problematico
tepore dell’inchiostro si possa riscaldare un giorno le ossa
artritiche del vecchio che «non» le scrisse (dallo
Zibaldone di Leopardi all’Ultimo nastro di Krapp
di Beckett).
Su questa faccenda, per essere
rigorosi toccherà farsi paradossali. Poiché sempre solo l’equivoca
scrittura resta presente, toccherà pensarla come mago
Merlino che attraversa il tempo all’incontrario: dall’apocalisse
all’Eden. «Parole parole parole» che accorrono dal futuro verso
un tempo - la giovinezza - già nato perduto; ed è chiaro che il
viaggio delle parole di Amleto verso la giovinezza di Amleto
corre come Achille verso la tartaruga, come la freccia di Zenone al
suo bersaglio.
Tutto questo giro per ritrovarsi a
dire una cosa che, a proposito dell’Amleto, è una delle
prime cose che si apprende: Shakespeare, l’autore-attore, non è
il giovane Amleto, è il fantasma del padre di Amleto: un
fantasma omonimo. Ovvero: Shakespeare è la scrittura merlina di
Amleto, giovinotto dall’«agitato spirito barocco» (G. Manganelli,
Contributo critico allo studio delle dottrine politiche del ‘600
italiano, Macerata 1999).
«L’intenso sentire, estatico o
terribile, senza un oggetto o eccedente il suo oggetto, è qualcosa che
ogni persona sensibile ha conosciuto; è senza dubbio soggetto di
studio per patologi. Si verifica spesso nell’adolescenza…» (T. S.
Eliot, Amleto e i suoi problemi, in Il bosco sacro)