«Ma ora, mio
nipote Amleto e mio figliuolo…»
(Atto I, sc. 2)
Re
Benché,
«questo politico nato» (R. Girard, Shakespeare. Il teatro
dell’invidia, Milano 2002) parla molto, e sciorina, per
oculate e forse innate ipotassi (forma mentis prima che
grammaticale, donatagli certo da ciò che anche Machiavelli
chiama «Natura»), una ipnotica psicologia della Gestalt:
tutto sta assieme, tutto torna, tutto procede insieme. Pratica
la verbosità della politica come anestetica arte della messinscena,
per raddolcire cuori impotenti ma forse rancorosi: Signori cari, il
Re son io, passiamo all’ordine del giorno e cerchiamo di volerci bene…
Per Amleto, il colpo del matador
è un solo tricolon, reso corposo dalla cascata di
allitterazioni e dalla politicissima epanadiplosi del «nostro»:
«Our chiefest courtier, cousin and our son»: Nostro miglior
cortigiano, nipote e nostro figlio (Ibid.)!
L’elaboratezza del significante rafforza la strategia di
avvicinamento del Re al cupo riottoso figliastro con l’evidente
climax parentale: da cortigiano a figlio!
Il piccolo principe ne è travolto:
tanto da non potere che cincischiare witz brevissimi e
sterili, e soprattutto da non poter far altro che obbedire - e poi da
solo meditare un del tutto sterile e adolescenziale suicidio.
Sempre più fondamentale appare
dunque la scena seconda del primo atto, e il lungo monologo d’esordio
di Claudio! – Il Re è già travestito e circonfuso di Necessità, e può
far sua l’impersonale dittatura del Si (M. Heidegger,
Essere e Tempo). Vecchia maschera micidiale di chi ti fotte
imperturbabile accampando fole hegeliane sui doveri insiti allo
Spirito del Tempo: non lo fo per piacer mio... – La Regalità
stessa impone a Claudio di trovare un equilibrio («la bilancia»!) tra
la lentezza del cordoglio e le preste esigenze dello Stato (Fortebraccio
minaccia la Danimarca!). Tra passato e futuro, i due piatti della
giustizia non possono che pesare sempre ben diversamente; siamo tutti
progressisti per forza, e la bilancia, proprio per essere equa, dovrà
restare per sempre sghemba a pendere dal lato del futuro: lui
sì, almeno secondo la più vieta vulgata di cosa sia il Tempo, gravido
di nuova vita.
Così, nel giro di un discorso, il
potere quasi per legge propria scivola tutto in mano al Re, come la
caduta della goccia lungo il tubo della grondaia: lo spiccio cordoglio
per il «nostro» fratello, dopo una ventina di parole veloci, diventa
la saggia preoccupazione per «il nostro» il reame, «il nostro Stato»…
Le ampie spirali da condor del suo pensar maestoso chiudono
infallibili sui punti nevralgici. Un molto fine e accurato «I'
mi sobbarco!» (Dante, Purgatorio, Canto VI, v. 135),
insomma: un il Re è morto, viva il Re! di fantastica fattura
che la semplicità nostra chiamerà barocca. In realtà è un
baldacchino difficilissimo da smontare. Da lì, terrebbe in una mano
sola tutti i Ballarò e sfonderebbe tutti i Porta a porta.