CLAUDIO – E noi, per
così dire, con sfigurata gioia, con un occhio fausto e l’altro lacrimoso,
con letizia nei funerali e lamento nelle nozze, in equa bilancia pesando
diletto e duolo…»
(Atto I, sc. 2)
AMLETO - Economia, economia, Orazio. Le carni arrostite / per il
funerale hanno rifornite, fredde, / le tavole matrimoniali.
(Atto I, sc. 2)
«Per ogni cosa c'è il
suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo. C'è un tempo
per nascere e un tempo per morire, (…) Un tempo per piangere e un tempo
per ridere, un tempo per gemere e un tempo per ballare.»
(Ecclesiaste, 3, 1-4)
Se la sanità d’uno Stato è dimostrata
dalla forza con cui si attiene alle differenze sacre ed elementari, prima
la vita e la morte, il regno di Danimarca è impazzito già all’inizio del
dramma. Un funerale e un matrimonio regale si mischiano e si confondono;
la nazione che dovrebbe ancora piangere già ride. L’inversione è totale e
nefasta. La battuta di Amleto è terribile: matrimonio e funerali con le
stesse carni… se sono calde per il funerale, il matrimonio sarà un
piatto che non ha paura di servirsi freddo. Così però solo per lui. La
Danimarca condivide invece l’imbarazzata festa, si fa Tivoli e scatena la
crapula e i fuochi d’artificio. La nota di Amleto resta la sola a stonare,
nel cupo della sua sordina, con un monologo da suicida («Oh se questa
troppo troppo lurida, solida carne…»).
Re Claudio è il regista a modo suo
grandioso di questa scommessa non solo politica ma simbolica:
il suo discorso mette tutto in ordine.
«Benché il ricordo della morte del
nostro caro fratello…» (Atto I, sc. 2), così attacca il primo
essenziale discorso di Claudio, Re usurpatore e fratricida, che dunque noi
chiameremo il Re Benché (Though yet).
Con l’astuzia che non esclude affatto
la franchezza (dire sempre pane al pane! E dunque morto al morto e nozze
alle nozze) e dell’understatement, con qualche venale elisione e
molto buonsenso, il Re fa vedere quanto fruttuosamente per tutti possano
progredire le convergenze parallele del bene col male, del morto steso in
cimitero e di lui sulla sua vedova… - Retoricamente, sguiscia da campione
di slalom, nel perpendicolo delle ipotassi (concessive, avversative,
parentesi, consecutive) da un ossimoro all’altro: «ne fa un uso smaccato»
(G. Melchiori, Shakespeare, Roma-Bari 2005): «savio dolore»
per il fratello, «sfigurata gioia»
e «diletto e duolo» per la
corona, novello sposo di una «sorella regina», e poi, soprattutto un nero
figliastro, ancora troppo impaniato nella palude del lutto, da trasformare
in un figlio riconciliato col futuro, che, a differenza del passato, è
tutto suo.
La contraddizione in termini trova nel
Re Benché subito uno dei due maestri del dramma.
Tutto un «Though
yet… Yet… Therefore… Have we as ‘twere…»
(traduce Serpieri: «Sebbene…
purtuttavia…. Pertanto... per così dire...»). L’altro è ovviamente
Amleto, anche se la differenza è lancinante: Claudio edulcorare a forza di
finezze eufuistiche lo stridore delle contraddizioni; l’eleganza della
figura è la quinta che rimuove lo schifo che in realtà la sostiene. In
Amleto l’ossimoro è ontologico, consustanziale al reale, immedicabile: «in
bocca ad Amleto e agli altri personaggi diviene lo specchio linguistico di
una situazione esistenziale» (Ibid.).