Regina – Che cosa devo fare io?
Amleto – Tutto il contrario di quello che vi dico io. Lasciate che il
re lardone vi trascini nel suo letto e vi pizzichi…
(Atto III, sc. 4)
«E
io che credevo di conoscere la Donna! La Donna e la Libertà! E la
insudiciavo di sciocchezze a priori! Pedantuzzo! Pedicure!»
(J. Laforgue, Amleto, ovvero Le conseguenze della pietà filiale)
Mentre il fantasma del babbo usa
signorili dolenti metafore morali («O Amleto, che caduta fu quella!» O
Hamlet, what falling off was there!, Atto I, sc. 5), il figlio
va giù pesante, e pornolalico nulla lascia implicito della fantasia
sua proiettata sull’«insopportabile» godimento della madre (N.
Fusini, Donne fatali, Roma 2005). Fissato alle «lenzuola
incestuose» (Atto I, sc. 2) come l’ago della bussola al suo
Nord, Amleto trova l’apice nella concitatissima
closet scene (III Atto, sc. 4), nella
quale neppure l’atroce comica morte di Polonio ferma il fiato
al figlio disperatissimo: «Già, ma vivere / Nel fetido sudore di un
letto bisunto, / inguazzata nella depravazione, tutta mielosa, / a far
l’amore nel lurido porcile!»: queste sarebbero le «parole come
pugnali» (Freud
si gode la metafora) da riservare a mamma Gertrude, ennesima regina
meretrix, almeno nelle fantasie buone per dar pappa all’odio famelico
del problematico ragazzo.
Amleto, infatti, già dopo il primo
incontro con l’ambiguo Fantasma (quale non l’è?), scatena il suo
cosmico schifo per la sessuocentricità del Tutto. Se quello,
«l’accoppiamento» insomma, come scrisse proprio
Montaigne che tanti esperti riconosco a dar trama
in Shakespeare soprattutto ai pensieri di Amleto, «è un centro a cui
tutte le cose tendono» (M. de Montaigne, Saggi, vol. III, Milano
1986), meglio allora che cosmo e Danimarca restino
«out of joint» (Atto I, sc.5)
, se joint dovesse scoprirsi il fallo di qualcuno.
Del tutto vano, dunque, il
senechiano Montaigne che forse però non subì una madre così
serenamente «genitale» (Lacan,
Seminario VI) e dunque avulsa dalle luttuose paturnie
filiali: «Nella maggior parte del mondo quella parte del nostro corpo
era deificata» (M. de Montaigne, Saggi, vol. III, Milano 1986),
ed è un peccato aver perso l’usanza.
Se Amleto ha letto codeste
serene parole, avrà strappato le pagine. Nessuna saggezza della carne,
in Amleto, e così forse perfino prima del Fantasma: il Biron di
Pene d’amor perdute può dire, molto shakespeariano in questo!, che
«siamo altrettanto onesti quando possono esserlo la carne ed il
sangue» (Atto III; sc. 3), mentre Amleto, appena lasciato, come
esordio del celeberrimo suo monologare, sceglie proprio la carne da
maledire masochisticamente («Oh! Questa troppo troppo solida carne…»,
Atto I, sc.2).
Chiaro che così il ragazzo prende
subito ad andare un po’ troppo contro il mondo: molto più che don
Chisciotte addosso ai mulini a vento. «Lussuria, lussuria; sempre
guerra e lussuria: non c’è nient’altro che rimanga di moda» (Troilo
e Cressida, Atto V, sc.2). E se almeno la guerra piace ad
Amleto almeno quanto poteva piacere a un Fabrizio del Dongo
prima di vedere Waterloo, e almeno tanto da invidiarla a Fortebraccio
che fa strame d’un bordo di Polonia, la passera resta il vortice in
cui gli sarà impossibile abbandonarsi. - Ah!, non solo lui
ascoltasse la voce umida e saputa di Molly: «Oh quanto chiasso
se fosse tutto qui il male che facciamo in questa valle di lacrime…»
(J. Joyce, Ulisse).