REGINA - Ma se lo è / perché ti sembra una cosa che succede a te solo?
AMLETO - Sembra, signora? No, è. Io non conosco “sembra”!
(Atto I, sc. 2)
«Meglio esser marci
che esserlo creduti,
se il non essere
d’esserlo s’accusa,
e il giusto piacere
è perso…»
(S0netto 121, vv.
1-3)
Una delle prime ironie, una delle
prime struggenti rodomontate del giovane principe è qui: lui non vuol
sembrare ma essere! Come si vede, da subito in Amleto si
seminano le parole che cristallizzeranno nel più celebre dei
soliloquî, e da lì echi fino alla fine del dramma. – Intanto, come gli
capita, esagera. Molto più umile e vero il «I profess to be no
less than I seem», che dice il misconosciuto Kent a Lear (Re
Lear, Atto I, sc. 4).
Nel caso di Amleto, tutto quanto
seguirà - a cominciare dallo Spettro - sarà sempre sul punto di essere
declassato a pura sembianza, a inganno dell’operosissimo non-essere
(proprio così pensano i platonici)… Alla fine non si saranno aizzate
che sembianze ambigue se non addirittura indecifrabili. L’unica cosa
che resta («the rest» che avanza al resto-è-silenzio)
come sublimazione residua dello sfascio, sarà la possibilità che
Orazio ne faccia un racconto. Il che presuppone uomini capaci di
credere alle favole, e la possibilità di scrivere favole vere:
sembianze vere.
«Tutto ciò rientra nella sensibilità
tardorinascimentale, manieristica, e poi barocca, in cui nasce il
relativismo moderno ed emerge la poetica dell’illusorio, per
autoriflessione della rappresentazione disancorata dal rigido sistema
medievale e poi rinascimentale delle somiglianze e del senso
ontologico di tutti i comparti del reale (al riguardo si veda
soprattutto Foucault, Le parole e le cose, ed.
it. 1967). La vita è sempre più illusione, teatro, sogno. Essere e
sembrare si scambiano indefinitivamente le parti, e non più tanto,
secondo la lezione platonica, in senso verticale-idealistico, quanto
in senso orizzontale-empirico.»
(A. Serpieri, Polifonia
shakespeariana, Roma 2002)