«Ora che cosa
c’è di più stolto del combattersi così, non si sa per che ragione, col
bel risultato che ciascuna delle due parti ne ricava sempre più danno
che vantaggio?»
(Erasmo da
Rotterdam, Elogio della follia, cap. XXIII)
AMLETO - ….solo
per un guscio d'uovo! La vera grandezza non è nell'aspettare grandi
cause per muoversi, ma nel trovare degno motivo di contesa in un
fuscello quand'è in gioco l'onore.
(Atto IV, sc. 4)
L’«indigente ma positivo principe
Fortebraccio» (Jules
Laforgue, Amleto, ovvero Le conseguenze della pietà filiale),
che però Amleto vede come «un delicato tenero principe dallo spirito
gonfiato da una divina ambizione che fa le boccacce all’invisibile
evento» (Atto IV, sc. 4) gli offre uno specchio di sé più
imbarazzante che quello della matrigna di Biancaneve: Fortebraccio
pronto a morire per
Tutto in un refuso, o, se si
preferisce, in una paronomasia: la poco regale realtà per Amleto, che
non può che bestemmiarla, si muove tra Polonio (spie, consigli
fraudolenti al re, mimetismi goffi col principe, trame avendo per
strumento la figlia…) e Polonia: «questa inezia», quest’«illusione e
trucco della fama» (Atto IV, sc. 4) per la quale la meglio
gioventù è come sempre pronta a sgozzarsi a vicenda. Tra intrigo e
forza, e insomma, per il classicista
Machiavelli, tra volpi e leoni: bestiario avvinghiato
peggio della michelangiolesca Battaglia dei Centauri,
per contendersi frammenti d’una marca deserta: «gusci d’uova». Amleto,
fascinosamente e disastrosamente, non è fino in fondo né volpe
né leone, anche se sa benissimo fare l’una (Rosencrantz e
Guildenstern) e l’altro (Polonio). Alla fine, imbambolato dal
desiderio mimetico (R. Girard, Shakespeare, il teatro
dell’invidia, Milano 1998), Amleto si droga dell’imitazione
fortebraccia e conclude: «Oh, d’ora in poi i miei pensieri siano di
sangue, o non valgano niente» (Atto IV, sc. 4). Avrà sangue e
niente.
Don Chisciotte
approverebbe entusiasta. E questo dovrebbe naturalmente preoccuparci.
Amleto che contempla i soldati che marciano verso la battaglia ci
fanno capire quanto sia – facciamo gli storici per mezzo secondo – un
uomo rinascimental-barocco. O un romantico abortito: un Fabrizio
Del Dongo che non può partire all’avventura, bloccato com’è nella
Danimarca-prigione, tenuto ai mille doveri della condizione di delfino
designato: in questo almeno, non moderno (e Laerte l’aveva
detto a Ofelia, e quindi a noi, credendo di parlare solo d’amore: «sta
attenta, dato il suo rango, egli non ha volontà. È soggetto lui stesso
alla sua nascita», Atto I, sc. 3).
Così regredisce e si fa barbaro:
«Oh, da quest’ora innanzi i miei pensieri sian sanguinosi, o non
valgano nulla.», Atto IV, sc. 4): è insomma molto antico
quel che pensa, e caso mai moderno è che inciampi. Ovvero: è moderno
Shakespeare, non Amleto.