«Ama. E non dire niente»
(Re
Lear,
Atto I, sc. 1)
«Pure, se farò parola, sprofonderò senza un suono
in abissi privi di senso. Imparerò a soffrire
senza dire qualcosa di ironico o di buffo
sulla sofferenza? Non sospettavo che la via della verità
fosse una via di silenzio dove la conversazione familiare
è l’agguato di un ladro e persino la buona musica
di pessimo gusto; e tu, naturalmente, non me l’avevi detto mai.»
(W. H. Auden,
Il mare e lo specchio)
Anche se detto con un po’ di
accademica enfasi, questo ci sembra vero: «il soliloquio, portato a
perfezione nell’Amleto, è parola nel silenzio, la parola
del silenzio» (F. Kermode, Il linguaggio di Shakespeare,
Milano 2000). Come Auden nel bellissimo Il mare e lo
specchio, Kermode vede in Shakespeare un percorso
necessario verso un dire reticente: «deliberatamente in direzione di una
sorta di reticenza», «contigua al silenzio».
Dal primo al quinto atto, le parole
corrono a spirale verso un baratro attorno a cui fino a quel momento
hanno vorticato sempre più strettamente: Amleto, verbosissimo per
quattro atti (in tutto «oltre
undicimila parole»!,
G. Melchiori,
Shakespeare),
nel quinto perde il suo solo primo e ultimo duello dialettico: con un
becchino che gli parla fino dal fondo di una fossa; poi muore senza
azzardar altre romanze, ma dicendo appunto il resto è silenzio.
Qui tra di noi, arrangiaticcî in
quest’altra parte del tempo, magari per puro riflesso scolastico, quel
resto-silenzio pare fratello dell’ultima frase di Wittgenstein
nel drastico Tractatus, dove l’ultima parola, come si sa,
è tacere. Un tacere, come per Amleto, sull’essenziale,
sull’indicibile che se ne va via con la vita: chissà se come un sole che
tramonta in fondo al mare o una stella che una volta per tutte si
spegne. – Intanto, tutte le parole che svolazzano gravitano lì intorno:
«words are not only fair or foul airs, they are also “pregnant”» (E.
M. Sharpe, An unfinished paper on Hamlet: Prince of
Denmark, 1948): gravide di quel silenzio?
«L’eroe tragico possiede solo un
linguaggio che gli si addice completamente: appunto il tacere. Così è
fin dall’inizio. Il tragico ha elaborato la forma artistica del dramma
proprio per poter rappresentare il silenzio… Tacendo, l’eroe rompe i
ponti che lo congiungono con dio e col mondo, abbandona la regione della
personalità, che si definisce e si individualizza mediante la parola,
per innalzarsi nella gelida solitudine del Sé. Il Sé non sa nulla fuori
di sé, è perfettamente solo. E come potrà affermare questa sua
solitudine, questo caparbio chiudersi in se stesso, se non appunto
tacendo? E così avviene nelle tragedie eschilee, come già i
contemporanei avevano rilevato» (F. Rosenzweig, La stella della
redenzione, Genova 1985).