"Il Compagno segreto" - Lunario letterario. Numero 13  settembre 2007

 


 

n. 13 °*° W. Shakespeare : Fantasmi di Amleto  °*° n. 13

 

 55. Shshshsh!

 

 

 

 


 

«Ama. E non dire niente»

(Re Lear, Atto I, sc. 1)

 

 

«Pure, se farò parola, sprofonderò senza un suono

in abissi privi di senso. Imparerò a soffrire

senza dire qualcosa di ironico o di buffo

sulla sofferenza? Non sospettavo che la via della verità

fosse una via di silenzio dove la conversazione familiare

è l’agguato di un ladro e persino la buona musica

di pessimo gusto; e tu, naturalmente, non me l’avevi detto mai.»

(W. H. Auden, Il mare e lo specchio)

 

 

 

Anche se detto con un po’ di accademica enfasi, questo ci sembra vero: «il soliloquio, portato a perfezione nell’Amleto, è parola nel silenzio, la parola del silenzio» (F. Kermode, Il linguaggio di Shakespeare, Milano 2000). Come Auden nel bellissimo Il mare e lo specchio, Kermode vede in Shakespeare un percorso necessario verso un dire reticente: «deliberatamente in direzione di una sorta di reticenza», «contigua al silenzio».

Dal primo al quinto atto, le parole corrono a spirale verso un baratro attorno a cui fino a quel momento hanno vorticato sempre più strettamente: Amleto, verbosissimo per quattro atti (in tutto «oltre undicimila parole»!, G. Melchiori, Shakespeare), nel quinto perde il suo solo primo e ultimo duello dialettico: con un becchino che gli parla fino dal fondo di una fossa; poi muore senza azzardar altre romanze, ma dicendo appunto il resto è silenzio

 

Qui tra di noi, arrangiaticcî in quest’altra parte del tempo, magari per puro riflesso scolastico, quel resto-silenzio pare fratello dell’ultima frase di Wittgenstein nel drastico Tractatus, dove l’ultima parola, come si sa, è tacere. Un tacere, come per Amleto, sull’essenziale, sull’indicibile che se ne va via con la vita: chissà se come un sole che tramonta in fondo al mare o una stella che una volta per tutte si spegne. – Intanto, tutte le parole che svolazzano gravitano lì intorno: «words are not only fair or foul airs, they are also “pregnant”» (E. M. Sharpe, An unfinished paper on Hamlet: Prince of Denmark, 1948): gravide di quel silenzio?

 

«L’eroe tragico possiede solo un linguaggio che gli si addice completamente: appunto il tacere. Così è fin dall’inizio. Il tragico ha elaborato la forma artistica del dramma proprio per poter rappresentare il silenzio… Tacendo, l’eroe rompe i ponti che lo congiungono con dio e col mondo, abbandona la regione della personalità, che si definisce e si individualizza mediante la parola, per innalzarsi nella gelida solitudine del Sé. Il Sé non sa nulla fuori di sé, è perfettamente solo. E come potrà affermare questa sua solitudine, questo caparbio chiudersi in se stesso, se non appunto tacendo? E così avviene nelle tragedie eschilee, come già i contemporanei avevano rilevato» (F. Rosenzweig, La stella della redenzione, Genova 1985).


 

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