«Ah, se questa carne
troppo troppo sordida
Si potesse sciogliere e
risolvere in rugiada… (ecc.)»
(Atto I, sc. 2, vv.
129-159)
«Primo soliloquio di Amleto. Il
soliloquio è la forma maggiore della solitudine dell’eroe. il parlar da
solo è quasi l’unica forma per Amleto, per Amleto, di discorso sincero, di
espressione della sua verità. Con tutti gli altri, tranne Orazio e
qualche volta la madre, Amleto usa delle maschere. Per Eliot le
motivazioni che qui dà Amleto – il lutto per il padre e lo sdegno per il
rapido matrimonio della madre – non sono sufficienti a giustificare il suo
dolore e il suo rifiuto del mondo: e ciò sarebbe il maggiore difetto
estetico dell’opera. Gli psicanalisti e i critici che vedono l’iperdeterminazione
drammatica non sarebbero d’accordo. Lacan in un seminario del
1969 («Desiderio e interpretazione del desiderio in Amleto» in Calibano
4, Roma 1979, che traduce da Yale French Studies 55-6, 1978)
scrive: »C’è qualcosa di davvero molto strano nel modo in cui Amleto parla
del padre. L’esaltazione e l’idealizzazione che egli ne compie (contrasta
con) il rifiuto, la maledizione, il disprezzo di cui rende oggetto Claudio
e che ha le apparenze della Verneinung, denegazione. Il torrente di
insulti che gli rovescia addosso sempre si riferisce al fallo di Claudio,
e Amleto rimprovera la madre per essersene riempita». Si noti che questo
atteggiamento verso lo zio, per cui noon mi accontenterei della
spiegazione di Lacan o degli altri psicanalisti, è precedente alla
conoscenza dell’assassinio, e sembra connettersi al malessere che è già in
Amleto, sia umor saturnino, Weltschmerz, tedium vitae, abulia, ennui,
spleen o malattia mortale di Kierkegaard. Si direbbe che è questa
sua «malinconia» (anch’esso un termine ideologico, di tipo
scettico-razionalistico, che serve a rifiutare il concetto di possessione
demoniaca, e che Amleto usa per sé a II, ii, 597) a cercarsi una
ragione nella colpa attribuita alla madre e allo zio, e nella stessa
affermazione non provata delle «marce condizioni di Danimarca». A questo
si aggiunga forse il disgusto dell’idealista e del moralista, o la rabbia
del diseredato (III; ii, 331, al di sotto forse del livello ironico
della battuta)…»
(N.
D’Agostino, Nota a W. Shakespeare, Amleto, Milano 2004).