Virtù della necessità, superfluità
della Virtù
CLAUDIO: …Ti
preghiamo di gettare in terra
Questo inutile
dolore e di pensare a noi
Come ad un padre,
perché, ne prenda nota il mondo,
tu sei il più
vicino erede al nostro trono…»
(Amleto, Atto I,
sc. 2)
Non c’è teorema o filosofia che
imbrigli il perpetuum mobile della realtà: nodo di nodi tra
Babele e Diluvio, Nave dei Folli e cori da stadio urlanti Barabba!
Barabba!. Non c’è apocalisse a ordinare la destra e la sinistra, e
proprio di questo non c’è che farsene (verbo artistico per
eccellenza!) una ragione. Claudio da subito si azzarda a nuovo
discreto – e tutt’altro che disprezzabile, se non fosse un assassino –
pedagogo del principe. Ancora più che con le parole, con l’habitus
di un re tollerante e non più ambizioso, prova a suggerire a Amleto la
giusta misura: non si pretenda di governare il caos ridistribuirne le
schegge doloranti nei riquadri di qualche casellario cartesiano:
piuttosto giustificandolo, il caos, lenèndone l’immedicabilità,
rivelandone rimandi simmetrie e dunque bellezze invisibili agli
occhi profani di chi Re non sarà mai. Il reale non è che un canovaccio
osceno da offrire ai pudori edulcoranti della retorica (Amleto dirà: un
canovaccio per il pensiero: Atto II, sc. 2).
La pedagogia del Re Ossimoro è
ovviamente pelosa, ma non per questo meno vera. Anche se troppo
bruscamente, Amleto si trova di fronte al fatto essenziale della vita
(vedi anche il sublime frammento di Anassimandro!): Il posto del
morto come sempre è stato confiscato dal vivo: Claudio offre variazioni
eleganti al tema più vieto: Sic transit! - Intreccia in
modo artefatto ma armonioso cose che ormai inconfutabilmente sono
lì; tutto infatti si tiene già solo per il fatto di – ormai –
esistere: potenza dell’inerzia delle cose accadute. Andreottiano, e non
freudiano, principio di realtà: i problemi che non si risolvono da soli
non li risolverà nessuno (tutta la tragedia lo dimostrerà!): Re
Benché parla, e sciorina, per oculate e forse addirittura innate
ipotassi (forma mentis donatagli da ciò che anche Machiavelli
chiama Natura, la più invincibile), una consolante psicologia della
Gestalt: tutto sta assieme, tutto torna, tutto procede.
Claudio pratica la verbosità della politica come arte della messinscena,
per raddolcire cuori impotenti ma forse rancorosi: Signori cari, il
Re son io, cerchiamo dunque di volerci bene.
Sempre più fondamentale appare la
seconda scena e il lungo monologo d’esordio di Claudio… che Stato sarà
mai un regno che fonda se stesso sulle per quanto temperate
contraddizioni dei termini (e delle cose?)? – Claudio, come tutti i
politici, dà per scontato l’essenziale: come funzionerà mai, e in quali
mani è garantita “L’equa bilancia” che tempera “diletto e duolo”? è
chiaro che egli sott’intenda una impersonale Necessità che lo obbliga a
fare le cose come le sta facendo. Vecchia maschera micidiale. La
necessità del cordoglio, qualcosa che si rivolge al passato, e la
necessità dello Stato, il futuro per antonomasia, non possono che pesare
ben diversamente sulla bilancia, la quale, per essere equa, non potrà
essere che sghemba del tutto, inclinata inderogabilmente per il peso del
piatto statuale, e dunque di Claudio… mentre Amleto, con i suoi cordogli
e i suoi dubbi è uno che pretende di fermare il tempo e tener su il
piatto leggerissimo inevitabilmente del cadavere di suo padre.
…del resto, com’era «nostro» il
fratello, dopo una ventina di parole veloci, è già «nostro» anche il
reame e poco dopo «nostro Stato»… Claudio attacca con un pensar maestoso
per ampie spirali, che in realtà accortamente chiudono sui punti
nevralgici. Lenta cascata di ipotassi, da reone saputo e tutt’altro che
improvviso, fa un discorso che subito prende il volo dall’accidente del
re predecessore appena morto e, molto politicamente dunque, tiene
assieme l’inconciliabile – il lutto per il fratello e il matrimonio con
la cognata appena vedova – innalzandosi subito alle sfere impersonali e
sacre necessità dello Stato. Un molto fine e accurato «I' mi
sobbarco!» (Dante, Purgatorio, Canto VI, v. 135),
insomma: un il Re è morto, viva il re! Di fantastica fattura barocca:
baldacchino difficilissimo da smontare. Da lì ridiscende infine,
nell’orifizio nero in cui tutto si chiude: sull’ardua faccenda del
figliastro Amleto, orfano e tuttora in piena ostentazione del lutto.
E quindi
Though yet… Yet… Therefore… Have we as ‘twere…
(traduce Serpieri:
«Sebbene… purtuttavia…. Pertanto... per così dire...»). Un virtuoso
delle convergenze parallele, della coincidenza degli opposti, del
tout se tiens nel centro della sua centripeta figura: re che
terrebbe in una mano sola tutti i Ballarò e sfonderebbe tutti i
Porta a porta.