"Il Compagno segreto" - Lunario letterario. Numero 13  settembre 2007

 


 

n. 13 °*° W. Shakespeare : Fantasmi di Amleto  °*° n. 13

 

 32. Hazard Hamlet

 

 

 

 


 

RE: La responsabilità del nostro ruolo non può tollerare

un pericolo così a noi vicino.

(Atto III; sc. 3)

 

«Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione»

(C. Schmitt, Teologia politica, 1922)

 

 

Atto III, scena 3: entrano il Re, Rosencrantz e Guildenstern. Il Re sente di dover spiegare ai due spioni perché un Amleto così manifestamente pazzo e rancoroso sia un pericolo («hazard») non più tollerabile.

 

E’ perfino ovvio che il potere, quando appresta il peggio di sé, non dica più Io, ma si faccia impersonale («La responsabilità») e parli di sé al plurale («del nostro ruolo»). Il più antico dei trucchi resta il più efficace. Ne terrà conto la propaganda, quando essere re non basterà a farsi creder taumaturghi.

Qui, Claudio, regale assassino in procinto del secondo crimine, si spaccia per complemento di specificazione di una metonimia: «la responsabilità del nostro ruolo». Come sempre, nel peggio, niente di personale. Anche il principe non è che servo d’un principio. Da bravo servo, Eichmann, al processo di Gerusalemme, anche senza aver letto né SchmittMachiavelli, si ritroverà la stessa giustificazione sulla punta delle labbra ogni qual volta che gli si chiederà conto di quanto avesse fatto: la responsabilità del nostro ruolo…

 

Torniamo al dramma. Guildenstern e Rosencrantz rinforzano ecolalici il re necessitato al male: «E’ preoccupazione religiosa e sacrosanta / badare alla sicurezza di quei molti corpi / che vivono e si nutrono di Vostra Maestà»; e poi soprattutto:  

La fine della Maestà non è una morte sola,

ma, come un gorgo, trae con sé

ciò che le è appresso. Oppure è una massiccia

ruota, fissata in vetta al più alto monte,

sui cui enormi raggi sono incastrate

e aggiunte diecimila cose di minor conto;

e, quando cade, ogni piccolo annesso,

ogni accessorio insignificante ne accompagna

la precipitosa rovina. Mai solo ha sospirato

il Re, ma con lamento universale.

Glossa Serpieri: qui Rosencrantz e Guildenstern fanno da ideologico coro, esponendo una «visione simbolico-politica dello stato propria del Medioevo ma che Elisabetta I cercava ancora di imporre al tardo Cinquecento. Il re era al centro dell’intero sistema, la garanzia della sopravvivenza dei cittadini e del significato del cosmo. Lo stato, in quanto “body politic” (corpo politico), aveva nel re la testa, ovviamente essenziale all’esistenza dell’intero organismo» (A. Serpieri, nota a Amleto, Venezia 2003).

 

 

Dunque Shakespeare è perfido quanto si spererebbe, mettendo codesta sacral visione, tutt’altro che démodé, in bocca a un terzetto formato da un re Caino e due sicari. Da che bel pulpito, insomma, la predica del re intangibile. Il crimine usa i paramenti retorici di un Sacro che ha da pochissimo violato e agli occhi di se stesso si sdogana come se fosse lui l’atavica intangibile autorità da preservare. Impudenza d’ordinanza, senza la quale quasi nessun male sarebbe possibile. Perché il Re uccise un Re che uccise un Re… - La scommessa, da Caino in poi, è sempre la medesima: l’oblio, l’inesistenza del male fatto proprio perché infine fatto: il patetico sogno anche di Sua Maestà Macbeth (vera entelechia di Claudio!) e che per quasi tutti i crimini in realtà s’avvera lasciando impuniti e sereni i non-più-autori a fruire dei crimini rimossi come di doni di natura.

Almeno Claudio teme ancora la «più antica maledizione, / l’assassinio di un fratello…» (Atto III, sc. 3): fortuna di tempi almeno superstiziosi.

 

Qui Machiavelli, diagnosta senza ambagi moralistiche, senza batter ciglio ammetterebbe invece la perfezione del meccanismo: «governare è far credere», e «li uomini sdimenticano più presto la morte del padre che la perdita del patrimonio» (Il Principe, cap. XVII). – Vedi caso, anche qui torna la dimenticabile morte del padre. 

 


 

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