RE: La responsabilità
del nostro ruolo non può tollerare
un pericolo così a noi
vicino.
(Atto III; sc. 3)
«Sovrano è chi decide
sullo stato di eccezione»
(C. Schmitt,
Teologia politica, 1922)
Atto III, scena 3: entrano il Re, Rosencrantz e Guildenstern. Il Re sente di dover
spiegare ai due spioni perché un Amleto così manifestamente pazzo e
rancoroso sia un pericolo («hazard») non più tollerabile.
E’ perfino ovvio che il potere, quando
appresta il peggio di sé, non dica più Io, ma si faccia
impersonale («La responsabilità») e parli di sé al plurale («del nostro
ruolo»). Il più antico dei trucchi resta il più efficace. Ne terrà conto
la propaganda, quando essere re non basterà a farsi creder taumaturghi.
Qui, Claudio, regale assassino in
procinto del secondo crimine, si spaccia per complemento di specificazione
di una metonimia: «la responsabilità del nostro ruolo». Come sempre, nel
peggio, niente di personale. Anche il principe non è che servo d’un
principio. Da bravo servo, Eichmann, al processo di Gerusalemme,
anche senza aver letto né Schmitt né Machiavelli, si
ritroverà la stessa giustificazione sulla punta delle labbra ogni qual
volta che gli si chiederà conto di quanto avesse fatto: la
responsabilità del nostro ruolo…
Torniamo al dramma. Guildenstern e
Rosencrantz rinforzano ecolalici il re necessitato al male: «E’
preoccupazione religiosa e sacrosanta / badare alla sicurezza di quei
molti corpi / che vivono e si nutrono di Vostra Maestà»; e poi
soprattutto:
La fine della Maestà non è una morte sola,
ma, come un gorgo, trae con sé
ciò che le è appresso. Oppure è una massiccia
ruota, fissata in vetta al più alto monte,
sui cui enormi raggi sono incastrate
e
aggiunte diecimila cose di minor conto;
e, quando cade, ogni piccolo annesso,
ogni accessorio insignificante ne accompagna
la precipitosa rovina. Mai solo ha sospirato
il Re, ma con lamento universale.
Glossa Serpieri: qui Rosencrantz
e Guildenstern fanno da ideologico coro, esponendo una «visione
simbolico-politica dello stato propria del Medioevo ma che Elisabetta I
cercava ancora di imporre al tardo Cinquecento. Il re era al centro
dell’intero sistema, la garanzia della sopravvivenza dei cittadini e del
significato del cosmo. Lo stato, in quanto “body politic” (corpo
politico), aveva nel re la testa, ovviamente essenziale all’esistenza
dell’intero organismo» (A. Serpieri, nota a Amleto, Venezia
2003).
Dunque Shakespeare è perfido
quanto si spererebbe, mettendo codesta sacral visione, tutt’altro che
démodé, in bocca a un terzetto formato da un re Caino e due sicari. Da
che bel pulpito, insomma, la predica del re intangibile. Il crimine usa i
paramenti retorici di un Sacro che ha da pochissimo violato e agli occhi
di se stesso si sdogana come se fosse lui l’atavica intangibile autorità
da preservare. Impudenza d’ordinanza, senza la quale quasi nessun male
sarebbe possibile. Perché il Re uccise un Re che uccise un Re… - La
scommessa, da Caino in poi, è sempre la medesima: l’oblio, l’inesistenza
del male fatto proprio perché infine fatto: il patetico sogno anche
di Sua Maestà Macbeth (vera entelechia di Claudio!) e che per quasi
tutti i crimini in realtà s’avvera lasciando impuniti e sereni i
non-più-autori a fruire dei crimini rimossi come di doni di natura.
Almeno Claudio teme ancora la «più
antica maledizione, / l’assassinio di un fratello…» (Atto III, sc. 3):
fortuna di tempi almeno superstiziosi.
Qui Machiavelli, diagnosta senza
ambagi moralistiche, senza batter ciglio ammetterebbe invece la perfezione
del meccanismo: «governare è far credere», e «li uomini sdimenticano più
presto la morte del padre che la perdita del patrimonio»
(Il Principe, cap. XVII).
– Vedi caso, anche qui torna la
dimenticabile morte del padre.