«Essere o non
essere…»
(Atto III,
sc. 2)
«Forse il
monologo di Amleto è la meditazione di un delitto? Egli dice
semplicemente che, se fossimo certi di essere assolutamente annientati
dalla morte, la morte, visto com’è fatto il mondo, sarebbe
incondizionatamente da scegliere.»
(A.
Schopenhauer, Parerga e paralipomena)
Abominevole successo del paratesto:
pare che anche le pietre sappiano qual è il problema del
giovane Amleto, il quale esita e sragiona come se «essere o non
essere» dipendesse da lui.
Per liberarsi dal cupo carcere in
cui lo costringono gli altri e se stesso, dice infatti che potrebbe
bastargli un sol colpo di pugnale! – Ora, fin quando lascia la lama
sospesa tra desiderio e timore, non è che l’allettante possibilità del
suo suicidio per lui sia niente; perché l’idea – e come dargli
torto? – gli batte in capo come qualcosa che lui potrebbe fare in modo
che effettivamente sia come no: Aristotele chiama
dynatòn ciò che può diventare qualcosa di
diverso da ciò che è (De interpretatione, 19° 19sgg.):
per esempio, come disse di sé Kurt Cobain, «un bel cadavere».
Si ammetterà che immaginarsi morto
non è lo stesso che fantasticare di diventare un albatro che plana tra
le onde della tempesta: questa impossibilità (Adýnaton) ci
affascina ma non ci turba, per il semplice fatto – che desolazione –
che non può essere…
I potenziali suicidi esistono. Il
numero coincide con quello dei viventi. Finché si mantengono al di qua
della morte, scelgono che l’irremeabile realtà si fregi ancora della
loro presenza. Si diventa suicidi, così pensa Amleto,
scegliendo di passare dall’essere al non essere… Pare sia una
possibilità che escluda tutte le altre: una realtà possibile «dalla
quale nessuno ha fatto ritorno» (Atto III, sc. 2). Da lì il la
consapevolezza, identica in Amleto e Montaigne che «è la paura
di morire, non il desiderio di vivere, che tiene il pazzo attaccato al
corpo» (M. de Montaigne, Saggi, vol. II, Milano 1986).
Come si vede, Montaigne è così stoico e pratico da trovare pazzo
l’incerto che per Amleto è semplicemente l’uomo. Ma il maturo
Montaigne avrebbe trovato noioso Amleto che resta a cavallo dell’indecidibile:
«Nessuno sta male per molto tempo se non per colpa sua. Chi non ha
coraggio di sopportare né la morte né la vita, chi non vuole né
resistere né fuggire, che cosa gli si può fare?» (Ibid.,
vol. I).
(Però a ognuno il suo: prendiamo
Falstaff e Amleto, che pure si somigliano. Falstaff, «gioia della
libertà conquistata con il senso dell’umorismo», è nemico di
«qualsiasi cosa seria, e soprattutto di qualsiasi cosa morale e
rispettabile»: «ridurre una cosa ad absurdum equivale a ridurla
a niente e ad andarsene liberi e felici» (A. C. Bradley). Con
capacità dialettiche non molto diverse da quelle di Falstaff, anche
Amleto arriva alla fine dello sminuzzamento sillogistico. Anche per
lui non c’è cosa che non possa ridursi a no-thing. Amleto però
di questo si stupisce, ne resta ferito: sente l’onta dell’essere che
in realtà non è. A differenza di Falstaff, del resto, ha l’onere
dell’alto lignaggio e una pessima missione da compiere. Magari non
crede all’essere, ma è tenuto a un dover essere che la ciccia allegra
di Falstaff neppure immagina.)