"Il Compagno segreto" - Lunario letterario.Numero 12, settembre 2007 


n. 12 °*° W. Shakespeare : Fantasmi di Amleto  °*° n. 12

7.  La paura del dynatòn

 


 

«Essere o non essere…»

(Atto III, sc. 2)

 

«Forse il monologo di Amleto è la meditazione di un delitto? Egli dice semplicemente che, se fossimo certi di essere assolutamente annientati dalla morte, la morte, visto com’è fatto il mondo, sarebbe incondizionatamente da scegliere.»

(A. Schopenhauer, Parerga e paralipomena)

 

 

Abominevole successo del paratesto: pare che anche le pietre sappiano qual è il problema del giovane Amleto, il quale esita e sragiona come se «essere o non essere» dipendesse da lui.

Per liberarsi dal cupo carcere in cui lo costringono gli altri e se stesso, dice infatti che potrebbe bastargli un sol colpo di pugnale! – Ora, fin quando lascia la lama sospesa tra desiderio e timore, non è che l’allettante possibilità del suo suicidio per lui sia niente; perché l’idea – e come dargli torto? – gli batte in capo come qualcosa che lui potrebbe fare in modo che effettivamente sia come no: Aristotele chiama dynatòn ciò che può diventare qualcosa di diverso da ciò che è (De interpretatione, 19° 19sgg.): per esempio, come disse di sé Kurt Cobain, «un bel cadavere».

Si ammetterà che immaginarsi morto non è lo stesso che fantasticare di diventare un albatro che plana tra le onde della tempesta: questa impossibilità (Adýnaton) ci affascina ma non ci turba, per il semplice fatto – che desolazione – che non può essere

 

 

I potenziali suicidi esistono. Il numero coincide con quello dei viventi. Finché si mantengono al di qua della morte, scelgono che l’irremeabile realtà si fregi ancora della loro presenza. Si diventa suicidi, così pensa Amleto, scegliendo di passare dall’essere al non essere… Pare sia una possibilità che escluda tutte le altre: una realtà possibile «dalla quale nessuno ha fatto ritorno» (Atto III, sc. 2). Da lì il la consapevolezza, identica in Amleto e Montaigne che «è la paura di morire, non il desiderio di vivere, che tiene il pazzo attaccato al corpo» (M. de Montaigne, Saggi, vol. II, Milano 1986). Come si vede, Montaigne è così stoico e pratico da trovare pazzo l’incerto che per Amleto è semplicemente l’uomo. Ma il maturo Montaigne avrebbe trovato noioso Amleto che resta a cavallo dell’indecidibile: «Nessuno sta male per molto tempo se non per colpa sua. Chi non ha coraggio di sopportare né la morte né la vita, chi non vuole né resistere né fuggire, che cosa gli si può fare?» (Ibid., vol. I).

 

(Però a ognuno il suo: prendiamo Falstaff e Amleto, che pure si somigliano. Falstaff, «gioia della libertà conquistata con il senso dell’umorismo», è nemico di «qualsiasi cosa seria, e soprattutto di qualsiasi cosa morale e rispettabile»: «ridurre una cosa ad absurdum equivale a ridurla a niente e ad andarsene liberi e felici» (A. C. Bradley). Con capacità dialettiche non molto diverse da quelle di Falstaff, anche Amleto arriva alla fine dello sminuzzamento sillogistico. Anche per lui non c’è cosa che non possa ridursi a no-thing. Amleto però di questo si stupisce, ne resta ferito: sente l’onta dell’essere che in realtà non è. A differenza di Falstaff, del resto, ha l’onere dell’alto lignaggio e una pessima missione da compiere. Magari non crede all’essere, ma è tenuto a un dover essere che la ciccia allegra di Falstaff neppure immagina.)


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