«…allo spettro del mio signor padre.
Lo chiamo a questo modo, sebbene io dubiti che quel vapore in uniforme
mi sia genitore; e con non infondate ragioni. Voi sapete, egli è
niente più che un fantasma; una povera cosa, una non cosa, un fiato
che si rapprende alle narici dei cavalli da tiro, d’inverno. Eppure
quanto è protervo, subdolo e insidioso. Due giorni fa, poco dopo la
mia morte, sono andato a cercarlo per gli spalti del castello; ed ecco
ho scorto la sua veneranda luminescenza appoggiata ad una merlatura: e
si sporgeva, come a scrutar le tenebre. Lentamente, discretamente, da
defunto recente, mi accostai. Non parve udirmi. Lungo, rivelatore
attimo! Mio padre, non è fantasia, andava accendendosi e spegnendosi,
come ho udito sanno fare certi pesci abissali, con ritmo che mi parve
irregolare; sostai stupito, poi turbato. Giacché non v’erano dubbi: il
vizioso vegliardo modulava della propria sventurata luce segnali per
lo spazio! Aguzzai lo sguardo, ma nulla mi riuscì di scorgere oltre la
merlatura, nella gran notte quotidiana. Pianamente mi ritrassi. Il
babbo scese a cena all’ora consueta, ma sembrava in qualche modo più
tenue, affranto, liso; aveva negli occhi, tuttavia, un indizio di
malizia, di astuzia, forse una risata, e giunse a motteggiare – con
mia madre, con la quale ha per solito rapporti assai aspri. Appunto
codesti segnali di mio padre precipitarono la decisione di scrivervi,
giacché io sospetto che la vecchia talpa, il vizioso macchinatore
abbia per la mente qualche temeraria congiura di cui io ignoro tutto,
ma che non può essere cosa dabbene, se ne traggono motivo di tristo
sorriso quelle labbra esangui. Vi è in lui una inclinazione al gioco,
allo scherno, né esita di fronte alle più guittesche esibizioni. Sono
certo d’aver notato, durante i nostri colloqui formali, una piega di
fastidio, una impazienza crucciosa quando mi tratta come figlio; come
se quella fosse una burla, una baia da finir presto.»
(G. Manganelli,
Un amore
impossibile,
in Agli
dèi ulteriori,
Torino 1972)