…se non per il
timore
di chissà che
dopo la morte…
(Atto III, sc.
2)
Tutti in Shakespeare condividono
quella che Emanuele Severino chiama la follia essenziale
dell’Occidente: la superstizione del divenire, che fa credere
che le cose siano e poi non siano più: che ciò che ‘è’ non sia più
niente.
Amleto: «Se è ora, non
è a venire; se non è a venire è ora; l’esser
pronti è tutto; poiché nessuno sa nulla di ciò ch’egli lascia, che
importa lasciare prima del tempo? Lascia andare.», in inglese Let
be: lascia essere (Atto V, sc. 2).
«Questo dipende da ciò che ‘è’ è»
(J. Derrida, Sulla parola, Roma 2005)
E infatti: tra essere e non essere,
lasciar essere cosa? Di per sé, infatti, i due corni del celebre
dilemma non potrebbero offrire appena due possibili ipocrisie? - C’è,
per non ammalarsi, da ammattire: «In un certo senso lo
schizoide tenta disperatamente di essere se stesso, e di ricostituire
e conservare il suo io, ma gli riesce estremamente difficile separare
il desiderio di essere dal desiderio di non essere perché gran parte
di quello che fa è, per sua natura, inestricabilmente ambiguo.» (R.
D. Laing, L’io diviso, Torino 1969); questo nella psicosi,
ma non pare che noi banali nevrotici ricorriamo a diplomazie molto
diverse: «La nevrosi è un modo di evitare di non essere evitando di
essere» (P. Tillich, The Courage To Be, London 1952): in
parole severe, vivendo nell’impossibile, se è vero che
«è impossibile che lo stesso
convenga e non convenga al medesimo» (Aristotele, Metafisica,
Libro IV, 1065b 19-20), e, ben al di là di fisime e ambasce, come
nel campionato di calcio
secondo Moggi, «vero è (solo) il risultato»
(Hegel, Fenomenologia dello Spirito, Premessa).
(«Questo dipende da ciò che…»)
Se è così, deve essere saltato per
aria qualcosa che si fa a questo punto fatica a credere che sia mai
esistito: come se il mondo fosse stato un tempo un’armonia di riti e
di cerimonie, di ruoli e di compiti perfettamente aderenti a uomini
che ormai però non esistono più: «Il soggetto non è più, come nel
cosmo simbolico, identificato per differenza pubblica e
gerarchica e per statuto verticale, ma è solo qualcuno che
recita una parte come potrebbe recitarne altre nella stessa storia o
in un’altra storia. Non coincidendo più con la sua parte, il
soggetto perde l’essere. E’ un attore che fa finta di essere un
personaggio, ma non lo è, o è anche un altro»
(A. Serpieri, Polifonia
shakespeariana, Roma 2002).
Serpieri pensa a Amleto, Lear, Riccardo II, ecc. – Come si vede,
dunque, doppiezze queste tra essere e non, che la letteratura conosce
da sempre: «noi siamo, non so come, doppi in noi stessi, e ciò fa che
quello che crediamo, non lo crediamo, e non possiamo disfarci di ciò
che condanniamo» (M. de Montaigne, Saggi, vol. II, Milano
1986). Petrarca l’aveva scritto, come meglio sarebbe
impossibile, in sonetti celeberrimi.
Cartesio
nota ben altro che queste, direbbe Heidegger, ontiche
quisquiglie: la doppiezza umana è ben più essenziale, nobile e
originaria: «io sono come il termine medio tra Dio e il nulla,
piazzato in tal modo tra l’essere sovrano e il non essere…»
(Cartesio, Meditazioni metafisiche); questo fifty-fifty
tra essere e nulla, però, ancora così armonioso, così rinascimentale,
quanto durerà? Chi saprà sostenerlo?
E poi, piazzato da chi se non da
Dio? Simone Weil è più coerente di Cartesio alle sue stesse
premesse: se, come non può essere diversamente, è Dio che mi ha
piazzato tra essere e nulla,
«Dio mi ha creato come non essere che sembra esistere» (S.
Weil, La conoscenza soprannaturale).
Ma possiamo anche cavarci da questi impacci gettandoci dentro a
capofitto, e dire come Pascal «Sono in un’ignoranza spaventosa di
tutto» (B. Pascal, Pensieri). Alleluia.
Sarebbe addirittura blasfemo
chiedersi ancora cosa tutto questo possa c’entrare non solo con l’Amleto,
ma col teatro! Carmelo Bene sapeva più di tutti sputtanare la
miseria di attori che «non sanno contraddire quello che dicono,
contraddire al tempo stesso, e non dire prima e poi dire no» (in:
M. Grande, L’estetica del dispiacere: conversazione con Carmelo
Bene, in «Cinema-cinema», luglio-dicembre 1978); il non-essere
qui fa un salto vertiginoso perché si fa carne, azione scenica,
teatro: «Un conto è diffidare del presente nelle speculazioni
metafisiche; altra cosa è non esserci»: non esserci davvero (C.
Bene, Opere, Milano 2002). Ecco il punto più drasticamente
amletico: «Dovrò pur esserci, per non esserci, in scena» (C. Bene,
cit. in C. G. Saba, Carmelo Bene Milano 2005).
(«Questo dipende da ciò che…»)
Ma invece forse no, forse non
sempre questo due. Anche perché un ‘due’ ripetuto alla fine
come un assioma sicuro è diventato un ‘uno’, e cioè una menzogna. -
Facciamo un salto: «…Non è ridicolo abbandonare ciò che è per ciò che
forse non è? Niente affatto, se ciò che è non è bene e ciò che forse
non è è il bene. Ma perché dire Ciò che forse non è?... Dire che il
bene è o non è non ha alcun senso; basta: il bene» (S. Weil,
La conoscenza soprannaturale).