"Il Compagno segreto" - Lunario letterario.Numero 13, settembre 2007 


n. 13 °*° W. Shakespeare : Fantasmi di Amleto  °*° n. 13

60.  Let be

 


…se non per il timore

di chissà che dopo la morte…

(Atto III, sc. 2)

 

 

Tutti in Shakespeare condividono quella che Emanuele Severino chiama la follia essenziale dell’Occidente: la superstizione del divenire, che fa credere che le cose siano e poi non siano più: che ciò che ‘è’ non sia più niente.

Amleto: «Se è ora, non è a venire; se non è a venire è ora; l’esser pronti è tutto; poiché nessuno sa nulla di ciò ch’egli lascia, che importa lasciare prima del tempo? Lascia andare.», in inglese Let be: lascia essere (Atto V, sc. 2).

 

«Questo dipende da ciò che ‘è’ è»

(J. Derrida, Sulla parola, Roma 2005)

 

E infatti: tra essere e non essere, lasciar essere cosa? Di per sé, infatti, i due corni del celebre dilemma non potrebbero offrire appena due possibili ipocrisie? - C’è, per non ammalarsi, da ammattire: «In un certo senso lo schizoide tenta disperatamente di essere se stesso, e di ricostituire e conservare il suo io, ma gli riesce estremamente difficile separare il desiderio di essere dal desiderio di non essere perché gran parte di quello che fa è, per sua natura, inestricabilmente ambiguo.» (R. D. Laing, L’io diviso, Torino 1969); questo nella psicosi, ma non pare che noi banali nevrotici ricorriamo a diplomazie molto diverse: «La nevrosi è un modo di evitare di non essere evitando di essere» (P. Tillich, The Courage To Be, London 1952): in parole severe, vivendo nell’impossibile, se è vero che «è impossibile che lo stesso convenga e non convenga al medesimo» (Aristotele, Metafisica, Libro IV, 1065b 19-20), e, ben al di là di fisime e ambasce, come nel campionato di calcio secondo Moggi, «vero è (solo) il risultato» (Hegel, Fenomenologia dello Spirito, Premessa).

  

(«Questo dipende da ciò che…»)

 

Se è così, deve essere saltato per aria qualcosa che si fa a questo punto fatica a credere che sia mai esistito: come se il mondo fosse stato un tempo un’armonia di riti e di cerimonie, di ruoli e di compiti perfettamente aderenti a uomini che ormai però non esistono più: «Il soggetto non è più, come nel cosmo simbolico, identificato per differenza pubblica e gerarchica e per statuto verticale, ma è solo qualcuno che recita una parte come potrebbe recitarne altre nella stessa storia o in un’altra storia. Non coincidendo più con la sua parte, il soggetto perde l’essere. E’ un attore che fa finta di essere un personaggio, ma non lo è, o è anche un altro» (A. Serpieri, Polifonia shakespeariana, Roma 2002). Serpieri pensa a Amleto, Lear, Riccardo II, ecc. – Come si vede, dunque, doppiezze queste tra essere e non, che la letteratura conosce da sempre: «noi siamo, non so come, doppi in noi stessi, e ciò fa che quello che crediamo, non lo crediamo, e non possiamo disfarci di ciò che condanniamo» (M. de Montaigne, Saggi, vol. II, Milano 1986). Petrarca l’aveva scritto, come meglio sarebbe impossibile, in sonetti celeberrimi.

 

Cartesio nota ben altro che queste, direbbe Heidegger, ontiche quisquiglie: la doppiezza umana è ben più essenziale, nobile e originaria: «io sono come il termine medio tra Dio e il nulla, piazzato in tal modo tra l’essere sovrano e il non essere…» (Cartesio, Meditazioni metafisiche); questo fifty-fifty tra essere e nulla, però, ancora così armonioso, così rinascimentale, quanto durerà? Chi saprà sostenerlo?

 

E poi, piazzato da chi se non da Dio? Simone Weil è più coerente di Cartesio alle sue stesse premesse: se, come non può essere diversamente, è Dio che mi ha piazzato tra essere e nulla, «Dio mi ha creato come non essere che sembra esistere»  (S. Weil, La conoscenza soprannaturale). Ma possiamo anche cavarci da questi impacci gettandoci dentro a capofitto, e dire come Pascal «Sono in un’ignoranza spaventosa di tutto» (B. Pascal, Pensieri). Alleluia.

 

 

Sarebbe addirittura blasfemo chiedersi ancora cosa tutto questo possa c’entrare non solo con l’Amleto, ma col teatro! Carmelo Bene sapeva più di tutti sputtanare la miseria di attori che «non sanno contraddire quello che dicono, contraddire al tempo stesso, e non dire prima e poi dire no» (in: M. Grande, L’estetica del dispiacere: conversazione con Carmelo Bene, in «Cinema-cinema», luglio-dicembre 1978); il non-essere qui fa un salto vertiginoso perché si fa carne, azione scenica, teatro: «Un conto è diffidare del presente nelle speculazioni metafisiche; altra cosa è non esserci»: non esserci davvero (C. Bene, Opere, Milano 2002). Ecco il punto più drasticamente amletico: «Dovrò pur esserci, per non esserci, in scena» (C. Bene, cit. in C. G. Saba, Carmelo Bene Milano 2005).

 

(«Questo dipende da ciò che…»)

 

Ma invece forse no, forse non sempre questo due. Anche perché un ‘due’ ripetuto alla fine come un assioma sicuro è diventato un ‘uno’, e cioè una menzogna. - Facciamo un salto: «…Non è ridicolo abbandonare ciò che è per ciò che forse non è? Niente affatto, se ciò che è non è bene e ciò che forse non è è il bene. Ma perché dire Ciò che forse non è?... Dire che il bene è o non è non ha alcun senso; basta: il bene» (S. Weil, La conoscenza soprannaturale).

 


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