Chiede Claudio perdono
a Dio di un deliltto tutt’ora in corso, del quale mai rinuncerebbe ai
vantaggi. Fare il Re è la sua vocazione.
Quindi? - «O what a
lesson concerning the essential difference between wishing and
willing, and the folly of all motive-mongering, while the individual
self remains!», commenta il molto simpatetico Coleridge (S. T.
Coleridge, Lectures on Shakespeare, London 1971).
Essendo a differenza di Amleto
molto umano, Claudio vorrebbe che il delitto diventasse diritto anche
agli occhi di Dio. E’ però talmente disperatamente smaccata la
pretesa, da rendere antipatica la pur desiderabile Apocatastasi.
Pentirsi senza pegno, salendo appena i primo due scalini della
confessione («contritio cordis, confessio oris»), ma schivando
accuratamente il terzo («…et satisfactio operis», Tommaso d’Aquino,
Summa Theologiae, III, 90;
ma vedi anche il canto
IX del Purgatorio di Dante)
è il paradosso che mette sotto scacco un Re per il resto sicuro: qui
si apre un arco d’angoscia che da Shakespeare arriva dritto a
Dostoevskij: che cosa può il pentimento «quando non ci si può
pentire?» (Atto III, sc. 2).
Dilemma tragico proprio perché non
può esser risolto con un predicozzo al Re Caino. E’ evidente che
Claudio non può pentirsi, che non ha neppure lontanamente alla
sua portata un kierkegaardiano salto nell’abisso del timore e tremore
di una fede senza se e senza ma. Tragico perché non cristiano
abbastanza, escluso dall’happy end di una mirabolante
conversione manzoniana (quei disastri letterari che il Gran Lombardo,
preferendo l’agiografia a una più onesta suspense, riserva a Napoleone
e all’Innominato): «L’essenziale, per un cristiano, non può
manifestarsi nella tragedia. (…) Un cristiano non può non
fraintendere, ad esempio, un poeta come Shakespeare, che
rappresenta ogni cosa, ci mostra tutte le possibilità della natura
umana» (K. Jaspers, Sul tragico, Milano 2000), prima
fra tutte, forse, la cainità della specie incapace in tutta evidenza
di conversioni.
Il che, svillaneggiati ed educati
dalla prima poesia dei Fleurs du Mal, ci
affraterna a Claudio come a una delle figure possibilissime
dell’ipocrisia nostra: cosa può il pentimento quando non ci si può
pentire? Claudio che tutto media, che tutto prova a sopire e
troncare, azzarda la sua tela di ragno per restare almeno appeso a
metà tra delitto e diritto, tra Dio e Io, tra scrupolo e vantaggio. Ha
una coscienza ma anche una posizione, è quindi un piccolo-borghese: «E
il re, infine, è proprio tanto nero?» (A. Strindberg, Amleto e
Faust, Milano 1988).