«Avevo quasi
dimenticato che la verità deve saper tacere.»
(Antonio e
Cleopatra, At. II, sc. 2)
«Le nostre particolari esperienze
non sono per nulla ciarliere, noi siamo altresì già ben oltre le cose
per cui abbiamo parole» (F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli,
1888); ma è anche vero che «il silenzio ha bisogno della parola
fisica dell’uomo per essere silenzio originario, da cui ogni discorso
trae la sua possibilità» (G. Vattimo, Linguaggio e silenzio,
in Essere, storia e linguaggio in Heidegger, Torino 1963).
Per scendere sul pratico,
come dire che, se di qualcuno non capisci i silenzi, non è detto che
sia più semplice con le parole, ardue protesi avventurate nella sempre
precaria comprensione. - Vedi il vecchio Lear che non capisce
nulla: ancor più del silenzio di Cordelia, le parole bugiarde della
altre due figliacce.
Non è il silenzio che assorda; e, se
non siamo già diventati sordi, conosciamo bene questo silenzio
sufficiente: «in amore il
silenzio vale più di un discorso. E’ bene rimanere interdetti, c’è
un’eloquenza del silenzio che penetra più di quanto non potrebbe la
parola» (Pascal, Discorso sulle passioni d’amore).
Anche il silenzio di Shakespeare è
quanto chiede di essere ascoltato. Ma cosa dovrebbe accadere sul
palcoscenico dopo che Amleto è morto? Quanto tempo dovrebbe durare
quel niente di parole? Per quanto tempo (posto che sia una questione
di tempo) lo si potrà ascoltare? – Viene in mente Teresa di
Calcutta che diceva della sua preghiera che era un ascolto di Dio
– e cosa dice Dio? Niente, ascolta.
Spesso però si
incontra proprio negli «eroi» di Shakespeare un pretendere addirittura
il silenzio del mondo: che tutto si spenga in quell’occhio di ciclone!
Narcisismo finale spesso di un certo effetto: «Labbra, fate uscire
quattro parole e poi /Il linguaggio finisca…» (Timone
d’Atene,
Atto V, sc. 1).
Le tragedie
esagerano e il mondo le ignora tutte. - Come nella
Caduta di Icaro
di Bruegel che ha fatto scrivere a Auden una delle
poesie più belle (Musée
des Beaux-Arts,
1939),
va avanti indifferente per le sue straducole contorte. Così, se
proprio si deve dire qualcosa, essere laconici è il minimo.
Ha sempre
ragione il becchino: «dimmelo,
e sgravati» (Amleto,
Atto V, sc. 1).