AMLETO - Per quanto posso vi obbedirò, signora.
          
          
          (Atto I, sc. 2)
          
          
          
           
          
          
          
          ORAZIO - Se l'animo è avverso a qualcosa, obbeditegli.
          
          
          
          (Atto V, sc. 2)
          
          
          
           
          
          
          
          «…nel suo ultimo discorso risuona la stessa nota di vanità che si 
          potrebbe trovare nel biglietto di un suicida.» 
          
          
          
          (W. H. Auden, Lezioni su Shakespeare)
          
          
           
          
          
           
          
          
           
          
          Bloom ammira «la bellissima 
          indifferenza di Amleto nell’atto V» (H. Bloom, Shakespeare, 
          Milano 2003).  Sarebbe interessante chiarire un po’ a cosa 
          quell’obbedienza obbedisca: a tutto potrebbe essere la 
          risposta? Se fosse solo obbedienza a qualcosa obbedirebbe a un 
          piano e a uno scopo, sarebbe un’obbedienza politica e dunque 
          sospendibile in qualunque momento in cui non apparisse più conveniente 
          a chi ha deciso di obbedire. - Mentre qui il conveniente è 
          morto, come sono morti il sacrificio, la sublimazione, l’attesa: tutte 
          le categorie che darebbero un senso, un’economia, una potenza a 
          quell’obbedienza. Non è un’obbedienza per qualcosa, ma 
          l’obbedienza all’essere. Amleto del quinto atto, come La 
          ginestra di Leopardi, finalmente contento dei 
          deserti? Il verbo cruciale di Amleto ha vissuto la sua 
          trasformazione: non più essere o non essere, come se fossero 
          termini equi di un enigma e di una scelta in realtà impossibile, 
          perché con tutta evidenza impensabile. Nel quinto atto crucialissimo, 
          Amleto mostra che il koan per lui non è più quello che tutti 
          crediamo di conoscere: to be or not to be? «Let be» 
          conclude l’ultimo dei 
          monologhi. A questo punto 
          restano 143 righe prima di morire e lui userà la gran parte delle sue 
          per chiedere perdono a Laerte. 
          Varrà la pena di rischiare di 
          tradurre a favore del senso più forte quel «let be»: «lascia 
          essere». «Poiché nessun uomo sa nulla di ciò che lascia, che è 
          lasciare prima del tempo? Sia come sia», traduce Serpieri.
           
          
           
           
          
          Essere obbedienti è ben diverso 
          dall’apatia fatalistica, perché senza operosità e ingegno nessuna 
          obbedienza sarebbe possibile; è ben diverso soprattutto dall’essere 
          complici. Una cosa esclude l’altra: anche se l’atto può apparire lo 
          stesso in entrambi i casi, il complice insinua la sua obbedienza a 
          favore di un calcolo, un tornaconto, una fede e un vantaggio suoi, 
          per quanto miserrimi possano essere. In ogni caso la sua obbedienza 
          sarà a favore proprio e a danno di qualcun altro, mentre ora stiamo 
          parlando di qualcosa di incommensurabilmente più disarmato. - Ovvio 
          che siamo su un terreno minato e che esistono danni che solo 
          l’obbedienza porta con sé. E’ evidente che si obbedisce a un bambino 
          come a Hitler che ci ordina di infilarci in una camera a gas, mentre 
          ci piace molto di più e c’inquieta molto meno la rivolta del ghetto di 
          Varsavia. 
          
           
          
          L’obbedienza all’essere - il Let 
          be - ha una placida dissennatezza che la conserva ormai nella 
          distrazione da qualunque malizia: ha perso la matematica; se dà 
          qualcosa, è semplicemente perché ha qualcosa da dare: «…non essere più 
          complici di niente, nemmeno della propria vita – questo è vedere 
          giusto, questo è scendere fino alla nulla radice del tutto» (E. M. 
          Cioran, Il funesto demiurgo). 
           
          
             
 
           
          
          Chi, nella promessa cristiana che 
          dice «chiedete e vi sarà dato, bussate e vi sarà aperto» (Luca, 11, 
          9), sta dalla parte di chi apre e di chi offre è l’obbediente. Uno 
          che non ha più riserve nei confronti delle circostanze, non praticando 
          più il criterio del dipende. Forse davvero per uno così non 
          esiste neppure più il tempo. Non cercando niente, la sua è a rigore 
          un’obbedienza sprecata: seme che muore lontano dalla sua mano destra. 
          C’è almeno un vantaggio estetico: l’azione compiuta viene fuori pura, 
          agli opposti di manierismi e retorica perché senza parole. E’ 
          un’azione senza scenario, senza paesaggio. Forse addirittura senza 
          casa, se non nell’obbedienza stessa. - Quanto a Amleto, se ne sono 
          accorti anche i suoi mortali nemici, che sulla sua obbedienza fanno 
          affidamento per la riuscita dei loro complotti d’accatto: «egli, 
          essendo remissivo, generosissimo, e libero da ogni macchinazione, non 
          osserverà i fioretti, così che agevolmente, o con facile trucco, voi 
          potete scegliere una spada non smussata, e con un colpo mancino 
          ripagarlo per vostro padre» (Atto IV, sc. 7).
          
           
          
          Durante il duello, Amleto pare 
          davvero credere che per chetare il dolore di uno come Laerte basti 
          chiamarlo «fratello» (Atto V, sc. 2). Poi sua madre beve dal 
          calice avvelenato. Amleto, ferito a morte, uccide quindi Claudio: 
          dunque vendica a caldo, dopo averla tanto svillaneggiata, la madre 
          («segui mia madre»!, Ibid.) e se stesso («Io ti seguo» 
          dice a Laerte). 
          
          Quanto al padre, a questo punto, 
          che dirne?