"Il Compagno segreto" - Lunario letterario.Numero 12, settembre 2007 


n. 12 °*° W. Shakespeare : Fantasmi di Amleto  °*° n. 12

29.  L'obbedienza

 


 

AMLETO - Per quanto posso vi obbedirò, signora.

(Atto I, sc. 2)

 

ORAZIO - Se l'animo è avverso a qualcosa, obbeditegli.

(Atto V, sc. 2)

 

«…nel suo ultimo discorso risuona la stessa nota di vanità che si potrebbe trovare nel biglietto di un suicida.»

(W. H. Auden, Lezioni su Shakespeare)

 

 

 

Bloom ammira «la bellissima indifferenza di Amleto nell’atto V» (H. Bloom, Shakespeare, Milano 2003).  Sarebbe interessante chiarire un po’ a cosa quell’obbedienza obbedisca: a tutto potrebbe essere la risposta? Se fosse solo obbedienza a qualcosa obbedirebbe a un piano e a uno scopo, sarebbe un’obbedienza politica e dunque sospendibile in qualunque momento in cui non apparisse più conveniente a chi ha deciso di obbedire. - Mentre qui il conveniente è morto, come sono morti il sacrificio, la sublimazione, l’attesa: tutte le categorie che darebbero un senso, un’economia, una potenza a quell’obbedienza. Non è un’obbedienza per qualcosa, ma l’obbedienza all’essere. Amleto del quinto atto, come La ginestra di Leopardi, finalmente contento dei deserti? Il verbo cruciale di Amleto ha vissuto la sua trasformazione: non più essere o non essere, come se fossero termini equi di un enigma e di una scelta in realtà impossibile, perché con tutta evidenza impensabile. Nel quinto atto crucialissimo, Amleto mostra che il koan per lui non è più quello che tutti crediamo di conoscere: to be or not to be? «Let be» conclude l’ultimo dei monologhi. A questo punto restano 143 righe prima di morire e lui userà la gran parte delle sue per chiedere perdono a Laerte. Varrà la pena di rischiare di tradurre a favore del senso più forte quel «let be»: «lascia essere». «Poiché nessun uomo sa nulla di ciò che lascia, che è lasciare prima del tempo? Sia come sia», traduce Serpieri.

 

 

 

Essere obbedienti è ben diverso dall’apatia fatalistica, perché senza operosità e ingegno nessuna obbedienza sarebbe possibile; è ben diverso soprattutto dall’essere complici. Una cosa esclude l’altra: anche se l’atto può apparire lo stesso in entrambi i casi, il complice insinua la sua obbedienza a favore di un calcolo, un tornaconto, una fede e un vantaggio suoi, per quanto miserrimi possano essere. In ogni caso la sua obbedienza sarà a favore proprio e a danno di qualcun altro, mentre ora stiamo parlando di qualcosa di incommensurabilmente più disarmato. - Ovvio che siamo su un terreno minato e che esistono danni che solo l’obbedienza porta con sé. E’ evidente che si obbedisce a un bambino come a Hitler che ci ordina di infilarci in una camera a gas, mentre ci piace molto di più e c’inquieta molto meno la rivolta del ghetto di Varsavia.

 

L’obbedienza all’essere - il Let be - ha una placida dissennatezza che la conserva ormai nella distrazione da qualunque malizia: ha perso la matematica; se dà qualcosa, è semplicemente perché ha qualcosa da dare: «…non essere più complici di niente, nemmeno della propria vita – questo è vedere giusto, questo è scendere fino alla nulla radice del tutto» (E. M. Cioran, Il funesto demiurgo).

 

 

 

Chi, nella promessa cristiana che dice «chiedete e vi sarà dato, bussate e vi sarà aperto» (Luca, 11, 9), sta dalla parte di chi apre e di chi offre è l’obbediente. Uno che non ha più riserve nei confronti delle circostanze, non praticando più il criterio del dipende. Forse davvero per uno così non esiste neppure più il tempo. Non cercando niente, la sua è a rigore un’obbedienza sprecata: seme che muore lontano dalla sua mano destra. C’è almeno un vantaggio estetico: l’azione compiuta viene fuori pura, agli opposti di manierismi e retorica perché senza parole. E’ un’azione senza scenario, senza paesaggio. Forse addirittura senza casa, se non nell’obbedienza stessa. - Quanto a Amleto, se ne sono accorti anche i suoi mortali nemici, che sulla sua obbedienza fanno affidamento per la riuscita dei loro complotti d’accatto: «egli, essendo remissivo, generosissimo, e libero da ogni macchinazione, non osserverà i fioretti, così che agevolmente, o con facile trucco, voi potete scegliere una spada non smussata, e con un colpo mancino ripagarlo per vostro padre» (Atto IV, sc. 7).

 

Durante il duello, Amleto pare davvero credere che per chetare il dolore di uno come Laerte basti chiamarlo «fratello» (Atto V, sc. 2). Poi sua madre beve dal calice avvelenato. Amleto, ferito a morte, uccide quindi Claudio: dunque vendica a caldo, dopo averla tanto svillaneggiata, la madre («segui mia madre»!, Ibid.) e se stesso («Io ti seguo» dice a Laerte).

Quanto al padre, a questo punto, che dirne?


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