«Se Dio ti vuol bene, sa dove stai di casa»
(M de Cervants, Don Chisciotte della Mancia, vol. II, cap.
XLIII )
«Io voglio disobbedire al mio dio, voi supponete che così facendo io
ubbidisca al mio dio ulteriore, e che, dunque, codesta mia
disobbedienza sia ubbidiente.»
(G. Manganelli, Un amore impossibile, in Agli dèi
ulteriori, Torino 1972)
«…ed io, per quanto mi riguarda,
io andrò, lo vedete, a pregare» (Atto I, sc. 5). Dopo lo
shock dello Spettro, Amleto dice questo; ma cosa dirà la sa
preghiera, e posto che non sia una delle cose farnetichi che gli
escono in quel momento, non si sa. L’altro che prega è Claudio che
s’angoscia,
«anima piena di discordanza
e di sgomento» (Atto IV, sc. 1), a chiedere un perdono senza
pentimento. Nessun altro prega mai, e gli stessi funerali di Polonio
e Ofelia sono paradossali, con sacerdoti e becchini scettici, riti
laconici, imbarazzati, quasi segreti.
Quando Amleto mette in mezzo Dio,
come del resto quasi tutti in Shakespeare, non è mai per Dio.
Dio è un mezzo per scopi discontinui: per dar carisma alla pulsione
di morte («…e quanto alla mia anima, che può egli farle, dacché è
una cosa immortale come lui?», Atto I, sc. 4), per maledire
da puritano isterico il trucco delle donne («Dio v’ha dato una
faccia e voi ve ne fate un’altra», Atto II, sc. 1), per
lamentare il divieto al suicidio («Oh se l’Eterno non avesse fissato
la sua legge / Contro il suicidio. Oh Dio, Dio…», Atto I, sc. 4,
e ovviamente l’Essere o non essere nell’Atto III),
o per accentuare il fatalista sul punto di farsi far fuori del
Quinto Atto: «Faccia pure Ercole stesso tutto quel che può, / il
gatto miagolerà e il cane vedrà arrivare la sua ora.” (Atto V,
sc. 1); «c’è una divinità a forgiare i nostri piani, / per
quanto noi possiamo abbozzarli…» (Atto V, sc. 2). Bellissime
e celebri su questo soprattutto tautologie del passero:
Noi sfidiamo i
presagi: v’è una provvidenza speciale
Nella caduta
di un passero. Se accade ora, non accadrà poi…
L’esser pronti
è tutto. Poiché nessuno sa ciò che lascia,
che importa
lasciarlo prima del tempo?
(Atto V, sc.
2)
Amleto impara ad essere un
giocatore che ama perdere. O forse, come il Paul Newman
immortale dello Spaccone (R. Rossen, 1961), è
nato proprio così: un esteta della sconfitta mirabolante. In più,
essendo un filosofo, teme chiaramente che vincere sia volgare: roba
per Claudio, Fortebraccio, suo padre... Obietterebbe
Pascal, il più noto degli azzardasti, che già questa è la
peggiore delle bestemmie. Dio detesta perdere: per questo «è la
nostra roccaforte» (Enrico VI parte I, Atto II, sc.
1). In tutto Shakespeare, non c’è fazione in guerra che non urli
Dio dalla sua parte. Ma Amleto non potrebbe neppure dire mai questa
battuta sublime di Lear: «Noi faremo nostro compito il mistero delle
cose, come se fossimo spie di Dio» (Re Lear, Atto V, sc.
2). Potrebbe far parte non di una tara della fede, ma di quel
superiore scrupolo intellettuale che tanto gli ammirò Gadda,
il fatto che manchi «ad Amleto la fede in Dio e in se stesso» (W.
H. Auden, Lezioni su Shakespeare). Il che capovolgerebbe,
e in nome di una fedeltà ulteriore, l’idea di Cioran che «ciò
che non può tradursi in termini di religione non merita di essere
vissuto» (E. M. Cioran, Quaderni. 1957-1972, Milano
2001). Al contrario: «Dio non è sobrio, non si tiene
all’essenziale» (G. Manganelli, Il funerale del padre,
in Tragedie da leggere, Torino 2005), in Amleto
poi sciala peggio che il novelliere neofita alla sua prima
stesura: «Un Dio sconosciuto fino a nuovo ordine si sviluppa e
cresce, appare e scompare a intervalli, durante i quali sembra
abbandonare il mondo. Ogniqualvolta si rivela ha cambiato idea.» (A.
Strindberg, Arringa di un pazzo).
Consoliamoci, come sempre,
leggiucchiando e pensando: «è radicale l’insensatezza, giacché il
Senso è il legame con Dio» (E. Severino, Il muro di pietra,
Milano 2006).
Sembra dunque il più plausibile
il tono dell’Amleto di Laforgue, che sul cadavere di
Ofelia lascia questo requiescat inappuntabile: