"Il Compagno segreto" - Lunario letterario.Numero 12, settembre 2007 


n. 12 °*° W. Shakespeare : Fantasmi di Amleto  °*° n. 12

25.  Facile dire Dio

 


«Se Dio ti vuol bene, sa dove stai di casa»

(M de Cervants, Don Chisciotte della Mancia, vol. II, cap. XLIII )

 

«Io voglio disobbedire al mio dio, voi supponete che così facendo io ubbidisca al mio dio ulteriore, e che, dunque, codesta mia disobbedienza sia ubbidiente.»

(G. Manganelli, Un amore impossibile, in Agli dèi ulteriori, Torino 1972)

 

 

«…ed io, per quanto mi riguarda, io andrò, lo vedete, a pregare» (Atto I, sc. 5). Dopo lo shock dello Spettro, Amleto dice questo; ma cosa dirà la sa preghiera, e posto che non sia una delle cose farnetichi che gli escono in quel momento, non si sa. L’altro che prega è Claudio che s’angoscia, «anima piena di discordanza e di sgomento» (Atto IV, sc. 1),  a chiedere un perdono senza pentimento. Nessun altro prega mai, e gli stessi funerali di Polonio e Ofelia sono paradossali, con sacerdoti e becchini scettici, riti laconici, imbarazzati, quasi segreti.

Quando Amleto mette in mezzo Dio, come del resto quasi tutti in Shakespeare, non è mai per Dio. Dio è un mezzo per scopi discontinui: per dar carisma alla pulsione di morte («…e quanto alla mia anima, che può egli farle, dacché è una cosa immortale come lui?», Atto I, sc. 4), per maledire da puritano isterico il trucco delle donne («Dio v’ha dato una faccia e voi ve ne fate un’altra», Atto II, sc. 1), per lamentare il divieto al suicidio («Oh se l’Eterno non avesse fissato la sua legge / Contro il suicidio. Oh Dio, Dio…», Atto I, sc. 4, e ovviamente l’Essere o non essere nell’Atto III), o per accentuare il fatalista sul punto di farsi far fuori del Quinto Atto: «Faccia pure Ercole stesso tutto quel che può, / il gatto miagolerà e il cane vedrà arrivare la sua ora.” (Atto V, sc. 1); «c’è una divinità a forgiare i nostri piani, / per quanto noi possiamo abbozzarli…» (Atto V, sc. 2). Bellissime e celebri su questo soprattutto tautologie del passero:

 

Noi sfidiamo i presagi: v’è una provvidenza speciale

Nella caduta di un passero. Se accade ora, non accadrà poi…

L’esser pronti è tutto. Poiché nessuno sa ciò che lascia,

che importa lasciarlo prima del tempo?

(Atto V, sc. 2)

 

 

 

Amleto impara ad essere un giocatore che ama perdere. O forse, come il Paul Newman immortale dello Spaccone (R. Rossen, 1961), è nato proprio così: un esteta della sconfitta mirabolante. In più, essendo un filosofo, teme chiaramente che vincere sia volgare: roba per Claudio, Fortebraccio, suo padre... Obietterebbe Pascal, il più noto degli azzardasti, che già questa è la peggiore delle bestemmie. Dio detesta perdere: per questo «è la nostra roccaforte» (Enrico VI parte I, Atto II, sc. 1). In tutto Shakespeare, non c’è fazione in guerra che non urli Dio dalla sua parte. Ma Amleto non potrebbe neppure dire mai questa battuta sublime di Lear: «Noi faremo nostro compito il mistero delle cose, come se fossimo spie di Dio» (Re Lear, Atto V, sc. 2). Potrebbe far parte non di una tara della fede, ma di quel superiore scrupolo intellettuale che tanto gli ammirò Gadda, il fatto che manchi «ad Amleto la fede in Dio e in se stesso» (W. H. Auden, Lezioni su Shakespeare). Il che capovolgerebbe, e in nome di una fedeltà ulteriore, l’idea di Cioran che «ciò che non può tradursi in termini di religione non merita di essere vissuto» (E. M. Cioran, Quaderni. 1957-1972, Milano 2001). Al contrario: «Dio non è sobrio, non si tiene all’essenziale»  (G. Manganelli, Il funerale del padre, in  Tragedie da leggere, Torino 2005), in Amleto poi sciala peggio che il novelliere neofita alla sua prima stesura: «Un Dio sconosciuto fino a nuovo ordine si sviluppa e cresce, appare e scompare a intervalli, durante i quali sembra abbandonare il mondo. Ogniqualvolta si rivela ha cambiato idea.»  (A. Strindberg, Arringa di un pazzo).

 

 

 

Consoliamoci, come sempre, leggiucchiando e pensando: «è radicale l’insensatezza, giacché il Senso è il legame con Dio» (E. Severino, Il muro di pietra, Milano 2006).

Sembra dunque il più plausibile il tono dell’Amleto di Laforgue, che sul cadavere di Ofelia lascia questo requiescat inappuntabile:

 

 

«Ripetiamolo, aveva un corpo angelico. E adesso che posso farci? Suvvia, do dieci anni della mia vita purché resusciti! Dio non parla. Aggiudicato!... Sarà che non esistono Iddii o, meglio, sono io che non ho dieci anni da vivere… ma la prima ipotesi mi sembra più solida, e per tante ragioni.»

(J. Laforgue, Amleto, ovvero Le conseguenze della pietà filiale)

 


 torna a  

 

     torna su