«Non sono
Isabella, perchè io so tante belle cose e quella poverina è tanto
ignorante! e poi Isabella è Isabella e io sono io. Povera me! in che
imbroglio sono!»
(Lewis Carroll,
Alice nel Paese delle meraviglie)
«Essere o non
essere…»
(Amleto,
Atto III, sc. 2)
«…la questione è
esserlo in modo sicuro.»
(Macbeth,
Atto III, sc. 1)
Essere o non essere?
«La domanda iniziale (…) apre
quella dimensione metafisica alla quale i critici inglesi sono molto
avversi» (N. D’Agostino,
Nota a W. Shakespeare, Amleto, Milano 2004).
Magari To or not to be non vuol dire Essere o non essere.
Ma ammettiamo invece di sì. E’ poi
così radicalmente autentica questa scelta? In una situazione di
tragico impasse, davvero la voce più vera è quella che dice “o
minestra o finestra”? Il barbaro Macbeth resta alla fine il più
filosofico dei personaggi di Shakespeare: «Essere quello che sono è
niente; la questione è esserlo in modo sicuro» (Atto III, sc. 1).
Heidegger
subodora, nei termini stessi della scelta, il trucco: «Ma la libertà è
solo nella scelta di una possibilità, cioè nel sopportare di
non-aver-scelto e non-poter-scegliere le altre.» (M. Heidegger,
Essere e tempo, Torino 1955). «Più in alto della realtà si
trova la possibilità», a sua volta però condizionata da altre
micidiali realtà adiacenti (nel caso di Amleto, un paio di genitori
ognuno a suo modo ingombranti e ossessivi). Nella realtà dunque si
decade: «Appunto perché l’Esserci è essenzialmente la sua possibilità,
questo ente può, nel suo essere, o “scegliersi”, conquistarsi, oppure
perdersi e non conquistarsi affatto o conquistarsi solo
“apparentemente”.» (Ibid.)
E allora: perdersi o trovarsi?
Il fatto che, tra le possibilità in
campo, una sola si realizzi non vuol dire che sia lei la
migliore: a meno che non la si pensi come Hegel, o come il
cristiano che troverà sempre il modo di considerar «provvida« ogni
«sventura» (A. Manzoni, Adelchi). Non è mai trionfante
la permanenza nell’essere di alcuna cosa, la quale, se è umana, sa
della sua accidentalità, del suo essere sì ma per un casuale
momento sperso tra gli infiniti altri: «Qualsiasi cosa che
esiste potrebbe non essere. Nessuna negazione di fatto
coinvolge una contraddizione. La non esistenza di un qualsiasi essere,
senza eccezione, è un’idea altrettanto chiara di quella della sua
esistenza.» (D. Hume, Ricerche sull’intelletto umano, Sez.
XII).
Questa «idea chiara» è per
Severino, ma anche per Amleto, la meno chiara di tutte, dal momento
che è un pensiero che non trova contraddittorio credere che le cose
«possano essere e non essere» pensando cioè che «l’essente (il non
niente) sia niente!» (E. Severino, La filosofia futura,
Milano 2006), anche se, proprio come dice Amleto, magari al
momento «non importa». Prima però lo terrorizzava l’idea che la morte
non fosse il sonno raccolto in un non essere uterino, buio e senza
parti: Amleto teme che «il sogno» dell’Essere sgambetti il non-essere
impedendo la quiete del nulla… teme che esista un rimosso del
non-essere che possa oniricamente riemergere, se, nel non essere,
ci si addormenta troppo…
Ecco insomma che
Amleto-Shakespeare pensa di suo talmente bene il divenire,
e vi si arrovella con tale puntiglio da saperne dire molto meglio di
Hume! Per ora è questo che conta.
E conta che, alla fine della sua
storia breve, Amleto ha fatto un passo avanti (o indietro?)
rispetto all’irrisolvibile dubbio dell’essere o no, riconoscendo che,
proprio perché si ignora – interessante! – non ciò che ci aspetta
ma ciò che si lascia, e poiché nulla esclude neppure
l’esistenza di un destino, si può lasciar essere
sia l’essere che il non essere:
«Sfidiamo i presagi. C’è una
speciale provvidenza nella caduta di un passero. Se è ora non è dopo;
se non è dopo sarà ora; se non è ora dovrà pur succedere. Essere
pronti è tutto. Poiché nessuno sa nulla di ciò che lascia, che importa
lasciare prima del tempo? Come sia sia.» (Atto V, sc. 2).
Tanto più che «per lo più l’esserci
finisce nell’incompiutezza o anche nello sfacelo e nella consunzione»
(M. Heidegger, Essere e tempo, Torino 1955).
Questa con cui si conclude è una
cosa che capita di pensarla un po’ tutti: pare che spesso, per un
giovanotto troppo dotato, e troppo sensibile per un mondo
fortebraccesco di polonii navigatissimi e ottusi amori impraticabili,
Non essere sia la sola nicchia di salvezza, la sola
piega buona nell’infinito velo di Maya. Anche nel Bhagavadgita
il principe Arjuna è preso da sgomento e non sa se sia meglio vincere
o essere vinti. - C’è chi di queste cose soffre molto, chi non ne
soffre affatto. - Certo la fantasia è un handicap; come un handicap è
il cuore: perché «il cuore è grande, è la vita che è piccola»: finale
di una lettera di Marina Cvetaeva, suicida.