"Il Compagno segreto" - Lunario letterario.Numero 12, settembre 2007 


n. 12 °*° W. Shakespeare : Fantasmi di Amleto  °*° n. 12

23.  Orazio e la modestia dell'uomo buono

 


 

«…perché si dovrebbe adulare il povero?»

(Atto III, sc. 2)

 

«Modesto, diligente, benevolo, moderato: così volete l’uomo? l’uomo buono? Ma questo mi sembra solo lo schiavo ideale, lo schiavo dell’avvenire.»

(F. Nietzsche, Il caso Wagner)

 

 

Ha un bel tessere Amleto le lodi di Orazio[1], stoico integerrimo yesman a cui il principe morente lascerà il compito di farsi aedo della sua storia così malamente troncata[2].

 

Resta che, appena il principe entra in scena, Orazio si fa più ombra che spalla di Amleto, portatore diligente di quel tanto di ecolalia laconica sufficiente a restituire la battuta al vulcano sempre acceso del protagonista. Ben diverso dall’Orazio  che all’inizio del dramma prova da solo a fronteggiare lo Spettro!

Il grado quasi zero di opacità, lo leggi forse nella scena seconda del quinto atto (e cioè l’ultima): dove Orazio controcanta i blablà di Amleto con battute così: “Questo è certo”, “E’ possibile?”, “Ve ne prego”, “Sì, mio buon signore”…

Così laconico e discreto, così «inerte e scialbo» (N. D’Agostino, Nota a W. Shakespeare, Amleto, Milano 2004), facile capire perché sia lui, è a differenza del principe, di suo sopraffino battutista, il vero scrittore.

 

 

A romanticheggiare, si può pensare che, essendo Shakespeare l’indiscutibile vero autore del dramma, Orazio sarebbe uno di tanti ruoli in cui egli simultaneamente e supremamente giocò a identificarsi. (Non leggiamo dunque l’Amleto come un gigantesco insostenibile monologo di Amleto, ma come un labirinto di specchi in cui, com’è tipico del genio di Shakespeare, l’autore alla fine dà ragione a tutti (J. Kott, Shakespeare nostro contemporaneo, Milano 2006).

 

Se questo, secondo il principio che la letteratura ’l consente, è masturbar grilli nei prati, torniamo al testo; e lì ha ragione Strindberg: «Shakespeare è stato negligente con Orazio: difatti lo tratta come uno che consente sempre, non come Amleto lo descrive» (A. Strindberg, Amleto e Faust, Milano 1988). E’ talmente monotona la funzionalità di Orazio al suo principe, da far sospettare che la sua stessa bontà sia solo un sintomo di scarsissima fantasia (e Kafka, benché gentilissimo, sussurrerebbe che una bontà senza lo sforzo d’una scelta non vale nulla; cfr. Aforismi di Zürau).

 

Sempre sull’uomo inguaribilmente buono, nel suo commento alla frase di Nietzsche che abbiamo messo in esergo, Heidegger chiarisce bene che si tratta di un «uomo che si rassegna agli ideali»; il suo tratto è lo zelo con cui «erige al di sopra di sé ideali soprasensibili che gli offrono ciò a cui potere assoggettarsi al fine di assicurare a se stesso, in questo compimento degli ideali, un fine della vita» (M. Heidegger, Il nichilismo europeo, Milano 2003): un modo tutt’altro che pessimo di irreggimentare una nevrosi.

 

 

Nietzsche, più sanguigno e sarcastico nei toni, lo spaccia in una formula: «Lo schiavo ideale («l’uomo buono»). Chi non può postulare come “scopo” se stesso, né può da sé postulare scopi, rende onore – istintivamente – alla morale della abnegazione. A essa lo persuade tutto: la sua avvedutezza, la sua esperienza, la sua vanità» (F. Nietzsche, Il caso Wagner). Lo stesso leggi nel più esoterico Heidegger: «perché, con-essendo con gli Altri sul nullo fondamento del suo nullo progettare, è già sempre in colpa nei loro confronti. In tal modo il voler-aver-coscienza assume la forma di un’accettazione dell’essenziale mancanza di coscienza entro la quale soltanto sussiste la possibilità esistentiva di essere “buono”» (M. Heidegger, Essere e tempo, Torino 1955).

 

Strindberg, che la vede con l’occhio del mestiere, sa che Orazio non è qualcosa di neppure vagamente realistico e quindi di psicologico, ma una funzione (non meno dell’ipostaticamente casta Lucia dei Promessi Sposi): «…ma per salvare l’umanità e se stesso Amleto (Shakespeare) immagina un Orazio. Come funzione, come postulato categorico, come ancora di salvezza, Orazio è dunque un’idea vaga, mentre tutti gli altri personaggi, Spettro compreso, risultano vivaci» (Op. cit.).

 

 

Quando però Harold Bloom riconosce la «notevole capacità di Amleto di trasformare gli spettatori in altrettanti Orazio» (H. Bloom, Shakespeare, Milano 2003), afferma una cosa vera forse solo in apparenza: non si potrebbe dire che Amleto trasforma tutti gli spettatori in Osric (che per darsi un contegno fingono di capirci qualcosa come Orazio)?

 

A meno che tutti gli spettatori di Amleto siano - il che è tutt’altro che escluso - scrittori: perché l’opaco Orazio, con la sua immedicabile perifericità rispetto ai fatti, il suo essere e  non essere negli eventi, pratica i modi di stare nel presente della scrittura: Orazio vive sottotraccia il Tempo, e la sua latitanza apparente è il tempo differito in cui del presente  si sublima l’eternità (tema, come si sa, ossessivo nei sonetti: «Sia che io viva per fare il tuo epitaffio», Sonetto 81, v.1).

Usando una similitudine che il donchisciottismo classicista di Amleto avrebbe apprezzato, Orazio è il Platone di quel giovane Socrate capace di paradossi ma non di atarassia. E Platone non lo noti nel mezzo delle calde logomachìe, ma, a babbo morto, nei Dialoghi.

 

Facile dire a questo punto che il vero teatro nel teatro di Amleto è l’Amleto stesso, e che noi stiamo assistendo a quanto il drammaturgo Orazio ha cavato dalla storia del povero amico. Grazie a lui, noi, «occhi non ancora creati» e «lingue future» recitiamo il suo essere («...eyes not yet created shall o'er-read, / And tongues to be your being shall rehears», Sonetto 81, vv. 11-12)! - Come verità e giusta convenzione esigono, l’autore s’è ritagliato per sé, come in una pala rinascimentale, un angolo discreto tra la folla concitata, e lì un autoritratto minimo, saggio, elusivo e sguincio (il che somiglierebbe davvero al niente che sappiamo di Shakespeare).


 


[1] «Orazio, tu sei l’uomo più giusto / in cui mi sia capitato di imbattermi»; «uno che, soffrendo tutto, non soffre nulla, / un uomo che i colpi e le ricompense della Fortuna / ha preso con eguale ringraziamento» (Atto III, sc. 2)

[2] «…in questo mondo feroce respira soffrendo per raccontare la mia storia» (Atto V, sc. 2).


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