«…perché si
dovrebbe adulare il povero?»
(Atto III, sc. 2)
«Modesto,
diligente, benevolo, moderato: così volete l’uomo? l’uomo buono?
Ma questo mi sembra solo lo schiavo ideale, lo schiavo dell’avvenire.»
(F. Nietzsche,
Il caso Wagner)
Ha un bel tessere
Amleto le lodi di Orazio,
stoico
integerrimo yesman
a cui il principe morente lascerà il compito di farsi aedo della sua
storia così malamente troncata.
Resta che, appena il
principe entra in scena, Orazio si fa più ombra che
spalla di Amleto,
portatore diligente di quel tanto di ecolalia laconica sufficiente a
restituire la battuta al vulcano sempre acceso del protagonista. Ben
diverso dall’Orazio che all’inizio del dramma prova da solo a
fronteggiare lo Spettro!
Il grado quasi zero
di opacità, lo leggi forse nella scena seconda del quinto atto (e cioè
l’ultima): dove Orazio controcanta i blablà di Amleto con battute così:
“Questo è certo”, “E’ possibile?”, “Ve ne prego”, “Sì, mio buon
signore”…
Così laconico e
discreto, così «inerte e scialbo» (N.
D’Agostino, Nota a W. Shakespeare,
Amleto,
Milano 2004), facile capire perché sia lui, è a differenza del principe, di suo
sopraffino battutista, il vero scrittore.
A
romanticheggiare, si può pensare che, essendo Shakespeare
l’indiscutibile vero autore del dramma, Orazio sarebbe uno di tanti
ruoli in cui egli simultaneamente e supremamente giocò a identificarsi.
(Non leggiamo dunque l’Amleto
come un gigantesco insostenibile monologo di Amleto, ma come un
labirinto di specchi in cui, com’è tipico del genio di Shakespeare,
l’autore alla fine
dà ragione a
tutti (J.
Kott,
Shakespeare
nostro contemporaneo,
Milano 2006).
Se questo, secondo il principio che la
letteratura ’l consente, è masturbar grilli nei prati, torniamo
al testo; e lì ha ragione Strindberg: «Shakespeare è stato
negligente con Orazio: difatti lo tratta come uno che consente sempre,
non come Amleto lo descrive» (A. Strindberg, Amleto e Faust,
Milano 1988). E’ talmente monotona la funzionalità di Orazio al suo
principe, da far sospettare che la sua stessa bontà sia solo un sintomo
di scarsissima fantasia (e Kafka, benché gentilissimo,
sussurrerebbe che una bontà senza lo sforzo d’una scelta non vale nulla;
cfr. Aforismi di Zürau).
Sempre sull’uomo inguaribilmente
buono, nel suo commento alla frase di Nietzsche che abbiamo messo
in esergo, Heidegger chiarisce bene che si tratta di un «uomo che
si rassegna agli ideali»; il suo tratto è lo zelo con cui «erige al di
sopra di sé ideali soprasensibili che gli offrono ciò a cui potere
assoggettarsi al fine di assicurare a se stesso, in questo compimento
degli ideali, un fine della vita» (M. Heidegger, Il nichilismo
europeo, Milano 2003): un modo tutt’altro che pessimo di
irreggimentare una nevrosi.
Nietzsche, più sanguigno e sarcastico
nei toni, lo spaccia in una formula: «Lo schiavo ideale («l’uomo
buono»). Chi non può postulare come “scopo” se stesso, né può da
sé postulare scopi, rende onore – istintivamente – alla morale della
abnegazione. A essa lo persuade tutto: la sua avvedutezza, la sua
esperienza, la sua vanità» (F. Nietzsche, Il caso Wagner).
Lo stesso leggi nel più esoterico Heidegger: «perché, con-essendo con
gli Altri sul nullo fondamento del suo nullo progettare, è già sempre in
colpa nei loro confronti. In tal modo il voler-aver-coscienza assume la
forma di un’accettazione dell’essenziale mancanza di coscienza entro la
quale soltanto sussiste la possibilità esistentiva di essere “buono”»
(M. Heidegger, Essere e tempo, Torino 1955).
Strindberg,
che la vede con l’occhio del mestiere, sa che Orazio non è qualcosa di
neppure vagamente realistico e quindi di psicologico, ma
una funzione (non meno dell’ipostaticamente casta Lucia dei
Promessi Sposi): «…ma per salvare l’umanità e se stesso
Amleto (Shakespeare) immagina un Orazio. Come funzione, come postulato
categorico, come ancora di salvezza, Orazio è dunque un’idea vaga,
mentre tutti gli altri personaggi, Spettro compreso, risultano vivaci»
(Op. cit.).
Quando però
Harold Bloom riconosce la «notevole capacità di Amleto di
trasformare gli spettatori in altrettanti Orazio» (H. Bloom,
Shakespeare, Milano 2003), afferma una cosa vera forse
solo in apparenza: non si potrebbe dire che Amleto trasforma
tutti gli spettatori in Osric (che per darsi un contegno fingono di
capirci qualcosa come Orazio)?
A meno che tutti gli spettatori di
Amleto siano - il che è tutt’altro che escluso - scrittori:
perché l’opaco Orazio, con la sua immedicabile perifericità rispetto
ai fatti, il suo essere e non essere negli eventi, pratica
i modi di stare nel presente della scrittura: Orazio vive sottotraccia
il Tempo, e la sua latitanza apparente è il tempo differito in
cui del presente si sublima l’eternità (tema, come
si sa, ossessivo nei sonetti: «Sia che io viva per fare il tuo
epitaffio», Sonetto 81, v.1).
Usando una similitudine che il
donchisciottismo classicista di Amleto avrebbe apprezzato, Orazio è il
Platone di quel giovane Socrate capace di paradossi ma non
di atarassia. E Platone non lo noti nel mezzo delle calde
logomachìe, ma, a babbo morto, nei Dialoghi.
Facile dire a questo punto che il
vero teatro nel teatro di Amleto è l’Amleto
stesso, e che noi stiamo assistendo a quanto il drammaturgo Orazio ha
cavato dalla storia del povero amico. Grazie a lui, noi, «occhi non
ancora creati» e «lingue future» recitiamo il suo essere («...eyes
not yet created shall o'er-read, / And tongues to be your being shall
rehears», Sonetto 81, vv. 11-12)! - Come verità e giusta
convenzione esigono, l’autore s’è ritagliato per sé, come in una pala
rinascimentale, un angolo discreto tra la folla concitata, e lì un
autoritratto minimo, saggio, elusivo e sguincio (il che somiglierebbe
davvero al niente che sappiamo di Shakespeare).