A. W. Schlegel
trent’anni dopo la battaglia per imporre Shakespeare in
versi in Germania, ricordava
così la resistenza degli
attori:
«Gli attori si muovevano in modo molto
strano con il verso: all’incirca come qualcuno al quale viene offerto
per la prima volta un ananas e che si mette in bocca il frutto
sconosciuto con tutto il suo ispido ciuffo. In particolare i nostri
giovani eroi e i primi amorosi sembravano convinti che la cosa più
importante nell’arte dell’attore fosse pavoneggiarsi sulla scena con una
figura imponente, che si doveva “pagare “di persona, che le parole del
ruolo non fossero che un inevitabile fastidio al quale bisognava
rassegnarsi con il minor spreco possibile di energia. Non sapevano
trovare alcuna mediazione tra l’espressione libera, immediata, e una
recitazione elevata e quindi cercavano di annullare completamente il
metro che odiavano. Si trovava molto scomodo a dover imparare a memoria
con più precisione di quanto fosse stato necessario fino allora con la
semplice prosa. I ruoli venivano trascritti in prosa in modo da non
disturbare il crudo naturalismo della recitazione. Iffland, un
attore così perfetto nel genere caratteristico, non comprese mai gli
elementi elementari della costruzione del verso. Inutilmente ci si
sarebbe sforzati di fargli capire che lo spostamento di alcune parole,
l’aggiunta arbitraria di un “O cielo!” o qualcosa del genere,
distruggeva l’ordine dei versi.»
(A. W. Schlegel,
Etwas über William Shakespeare bei Gelegenheit Wilhelm Meister,
1796; cit. In
M. Fazio, Il mito di Shakespeare e
il teatro romantico, Roma 1992)