«Chi è che mi sa
dire chi sono?»
(Re Lear,
Atto I, sc. 4)
«…io, il quale non
sono che un paperino…»
(M. de Montaigne,
Saggi, vol. III, Milano 1986)
“Ma io, che non
sono tagliato…”
(Riccardo III,
Atto I, sc. 1)
Sollievo!
Il paperino di Montaigne è bello e
utile, nell’esageratissimo mare dell’Essere, come una di quelle
ciambelle paperomorfe che rendono godibile l’ondivago mare ai bambini:
salverà dall’affogamento anche l’adulto, ma per fortuna rendendolo
ridicolo.
Il crudele Novecento, troppa sapienza
per un secolo solo!, se farà un paio di passi avanti, sarà giusto
rispetto all’uno di quel «non sono che un paperino» di Montaigne.
Tra psicoanalisi, sociologia e cervelli multipli ereditati dalla
selezione, già solo per restar fedeli alla sempre più venerata
scientificità, il paperino dell’Ego risulterà non solo bucabile
facilmente come ogni onesto salvagente, ma multiplo e centrifugo. Per
cui la frase, anche solo psicanaliticamente corretta, ormai suonerebbe:
«io, il quale non sono che dei paperini…» - e certo molti più che Qui
Quo Qua.
(Va da sé che tutto questo già
leggevi in Shakespeare, per non dire chissà fin dove si potrebbe
risalire indietro: basterà riconoscersi in Petrarca primo
autore di consapevoli fragmenta?).
Agli antipodi del frangersi amletico
tra essere e non, sta Falstaff, ma non perché si creda uno:
piuttosto per un modo stupefacentemente sereno di accettare che le
trippe cospicue della metafisica son tenute su da «tutta la borghesia
degli spiriti vitali» (
Enrico IV Parte II, Atto IV, sc. 2).
Così sente in sé una polifonia, ma senza dissonanze: «l’intera scuola di
lingue» che gli sta in pancia altro non gli dice che Falstaff!, e
questo non come un Miserere, piuttosto un Gloria di assoluta ontologica
pienezza: «Se avessi soltanto una pancia alquanto moderata, sarei
semplicemente l’uomo più attivo d’Europa; il mio ventre, il mio ventre,
il mio ventre mi rovina» (Ibid.).
E’ un egocentrismo maturo,
consapevole e tollerante: ma si tratta di un unicum, dell’uomo
più felicemente risolto del canone del Bardo! (Almeno finché il re lo
scarica e lui desolatissimo, ma fuori scena, muore).
La graniticità psicologica degli
altri è come una mano di gesso che pretenda di tener su un muro
totalmente sconnesso. Tanto più se eroico, l’Io è infantile e
stereotipo: “Anziché un nucleo da scoprire al centro del suo essere,
l’“io sono” di Otello pare una sorta di compagnia di repertorio, un “noi
siamo”.» (J. Calderwood, The Properties of Othello, Amherst,
1989); come sempre, Macbeth è abissalmente più consapevole: «Essere
quello che sono è niente; la questione è di esserlo in modo sicuro»,
(Macbeth, Atto III; sc. 1), tal quale, in questa velleità di
fulminea compattezza, proprio al povero Amleto dell’«Essere
pronti è tutto» (Atto V, sc. 2)…
Ognuno impara a sue spese che siamo
«cementati da qualità infermicce» (M. de Montaigne, Saggi,
vol. III, Milano 1986); che l’io è un «utensile vagabondo, dannoso e
temerario; difficile mettervi assieme l’ordine e la misura» (Ibid.,
vol. II); che è «una spada pericolosa per il suo stesso possessore…»
(ibid.).
Macbeth è un eroe gabbato da
tre streghe. Fino a quel momento, si può pensar bene che avesse
cavalcato attraverso la vita guerrescamente intero come un Otello
sposino. Ognuno a suo modo, ma basta un passo – uno Jago, un sogno - per
sfarinare «l’iperbolica ingenuità dell’uomo», che «postula se
stesso come senso e misura del valore delle cose…» (F.
Nietzsche, Il caso Wagner).
Da qui, equivoci
a cascata:
«Ignari di noi
stessi, spesso invochiamo il nostro stesso danno, che i saggi numi ci
negano per nostro bene; così ricaviamo un profitto sprecando le nostre
preghiere» (Antonio
e Cleopatra,
At. II, sc. 1):
«L’apprendista stregone solitamente è preda delle forze contagiose da
lui stesso scatenate. Alla fine, tutto quello che ottiene con la sua
attività convulsa è una accelerazione del male intorno a lui, una
indifferenziazione aggravata che sfocia nel caos.»
(R.
Girard, Shakespeare. Il teatro
dell’invidia,
Milano 2002).
Il dottor Freud avrà certo
letto anche nello Shakespeare che recitava a memoria che l’Io è
tutt’altro che «padrone in casa sua» (S. Freud, Aforismi e
pensieri, Roma 1994)! E sarebbero oggi semplicemente
intollerabili critici che leggessero Shakespeare ancora «accecati dal
mito ottocentesco di una continuità psichica» (R. Girard,
Shakespeare. Il teatro dell’invidia, Milano 2002).