"Il Compagno segreto" - Lunario letterario.Numero 12, settembre 2007 


n. 12 °*° W. Shakespeare : Fantasmi di Amleto  °*° n. 12

16.  Paperino

 


 

 

«Chi è che mi sa dire chi sono?»

(Re Lear, Atto I, sc. 4)

 

«…io, il quale non sono che un paperino…»

(M. de Montaigne, Saggi, vol. III, Milano 1986)

 

“Ma io, che non sono tagliato…”

(Riccardo III, Atto I, sc. 1)

 

 

 Sollievo!

Il paperino di Montaigne è bello e utile, nell’esageratissimo mare dell’Essere, come una di quelle ciambelle paperomorfe che rendono godibile l’ondivago mare ai bambini: salverà dall’affogamento anche l’adulto, ma per fortuna rendendolo ridicolo.

 

Il crudele Novecento, troppa sapienza per un secolo solo!, se farà un paio di passi avanti, sarà giusto rispetto all’uno di quel «non sono che un paperino» di Montaigne. Tra psicoanalisi, sociologia e cervelli multipli ereditati dalla selezione, già solo per restar fedeli alla sempre più venerata scientificità, il paperino dell’Ego risulterà non solo bucabile facilmente come ogni onesto salvagente, ma multiplo e centrifugo. Per cui la frase, anche solo psicanaliticamente corretta, ormai suonerebbe: «io, il quale non sono che dei paperini…» - e certo molti più che Qui Quo Qua.

 

(Va da sé che tutto questo già leggevi in Shakespeare, per non dire chissà fin dove si potrebbe risalire indietro: basterà riconoscersi in Petrarca primo autore di consapevoli fragmenta?).

 

 

Agli antipodi del frangersi amletico tra essere e non, sta Falstaff, ma non perché si creda uno: piuttosto per un modo stupefacentemente sereno di accettare che le trippe cospicue della metafisica son tenute su da «tutta la borghesia degli spiriti vitali» ( Enrico IV Parte II, Atto IV, sc. 2). Così sente in sé una polifonia, ma senza dissonanze: «l’intera scuola di lingue» che gli sta in pancia altro non gli dice che Falstaff!, e questo non come un Miserere, piuttosto un Gloria di assoluta ontologica pienezza: «Se avessi soltanto una pancia alquanto moderata, sarei semplicemente l’uomo più attivo d’Europa; il mio ventre, il mio ventre, il mio ventre mi rovina» (Ibid.).

E’ un egocentrismo maturo, consapevole e tollerante: ma si tratta di un unicum, dell’uomo più felicemente risolto del canone del Bardo! (Almeno finché il re lo scarica e lui desolatissimo, ma fuori scena, muore).

 

La graniticità psicologica degli altri è come una mano di gesso che pretenda di tener su un muro totalmente sconnesso. Tanto più se eroico, l’Io è infantile e stereotipo: “Anziché un nucleo da scoprire al centro del suo essere, l’“io sono” di Otello pare una sorta di compagnia di repertorio, un “noi siamo”.» (J. Calderwood, The Properties of Othello, Amherst, 1989); come sempre, Macbeth è abissalmente più consapevole: «Essere quello che sono è niente; la questione è di esserlo in modo sicuro», (Macbeth, Atto III; sc. 1), tal quale, in questa velleità di fulminea compattezza, proprio al povero Amleto dell«Essere pronti è tutto» (Atto V, sc. 2)

Ognuno impara a sue spese che siamo «cementati da qualità infermicce» (M. de Montaigne, Saggi, vol. III, Milano 1986); che l’io è un «utensile vagabondo, dannoso e temerario; difficile mettervi assieme l’ordine e la misura» (Ibid., vol. II); che è «una spada pericolosa per il suo stesso possessore…» (ibid.).

 

 

Macbeth è un eroe gabbato da tre streghe. Fino a quel momento, si può pensar bene che avesse cavalcato attraverso la vita guerrescamente intero come un Otello sposino. Ognuno a suo modo, ma basta un passo – uno Jago, un sogno - per sfarinare «l’iperbolica ingenuità dell’uomo», che «postula se stesso come senso e misura del valore delle cose…» (F. Nietzsche, Il caso Wagner).

Da qui, equivoci a cascata: «Ignari di noi stessi, spesso invochiamo il nostro stesso danno, che i saggi numi ci negano per nostro bene; così ricaviamo un profitto sprecando le nostre preghiere» (Antonio e Cleopatra, At. II, sc. 1): «L’apprendista stregone solitamente è preda delle forze contagiose da lui stesso scatenate. Alla fine, tutto quello che ottiene con la sua attività convulsa è una accelerazione del male intorno a lui, una indifferenziazione aggravata che sfocia nel caos.» (R. Girard, Shakespeare. Il teatro dell’invidia, Milano 2002).

 

Il dottor Freud avrà certo letto anche nello Shakespeare che recitava a memoria che l’Io è tutt’altro che «padrone in casa sua» (S. Freud, Aforismi e pensieri, Roma 1994)! E sarebbero oggi semplicemente intollerabili critici che leggessero Shakespeare ancora «accecati dal mito ottocentesco di una continuità psichica» (R. Girard, Shakespeare. Il teatro dell’invidia, Milano 2002).


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